Peppino, il difensore della dignità umana

La notizia che Peppino Mazzotta ha cessato di esistere, fa tornare in mente il ritratto della morte vera, quella fredda, vestita di nero, spettrale e cupa.
Viene voglia di cercare rifugio. Quel rifugio sempre trovato nella sua stanza, tra le mura di uno studio legale sobrio ed intriso di compostezza.
Ecco, ancora oggi mi permetto di chiamarlo amorevolmente “Peppino”, ma mi rivolgevo a lui sempre ossequioso, dandogli del “voi”, come s’addice ad un uomo antico, retto, quasi irraggiungibile, eppure finemente umile.
Su ogni essere vivente di questa terra, la lingua pepata di noi brezi sarebbe capace di posarsi a lacerarne le umane debolezze. Ma di Peppino nessuno riusciva a parlar male.
Era semplicemente un compagno, per me molto di più. Per noi tutti, “l’Avvocato”.
Quando muore un materialista, rimangono sconforto e strazio, soprattutto nella mente di noialtri materialisti. Il ritratto crudo della nostra finitezza è tutto nell’immagine del feretro dell’Avvocato. Ci lascia smarriti, tremendamente inviperiti verso una malattia che aggredisce e consuma soprattutto le persone più belle.
Sì, bello. Peppino faceva innamorare anche quegli uomini che per natura o cultura riescono ad amare solo donne. Elegante e bello fuori, nei modi. Bello dentro. Perché tanti comunisti alzano il pugno e indossano il distintivo. Ma pochi coltivano il seme puro di giustizia, eguaglianza e libertà, rendendolo pratica di vita, agire quotidiano, tenue riflesso delle azioni più semplici.
Peppino era comunista vero, di quelli della stirpe di Gesù, Spartaco, Francesco D’Assisi ed il “Che”. Si sarebbe fatto martoriare, pur di difendere i propri ideali. Difensore, prima di tutto, della dignità umana. Non una professione come un’altra. Per lui era una lotta, di quelle lotte che storicamente appartengono ai comunisti. Liberare il maggior numero possibile di corpi dalle galere, come liberazione dell’umanità dall’oppressione! Lo scriveva senza indugio: “Carcere come strumento di tortura, dunque, come la garrota e la ruota, come i carboni ardenti e le fruste, come i cubicoli e le luci accese per tutta la notte. Alla tortura abbiamo già detto no, e certamente anche oggi quasi tutti si è ancora contro quei sistemi. Ma il carcere altro non è che la nuova tortura, quella che ha sostituito l’olio bollente e la pece: ed anche adesso bisogna dire no”.
Nel giugno scorso, mi ha mandato a chiamare. Era una scusa. Voleva dirmi qualcosa. Quando ha cominciato a parlare dei suoi figli, ho capito che mi stava concedendo un pezzettino della sua immensa eredità morale e politica. Mi disse che lui in quel pomeriggio si sentiva contento, perché s’era appena reso conto che uno dei Mazzotta junior avrebbe “fatto in tempo” a diventare notaio, e non avvocato.
Da buon padre, Peppino si preoccupava. Consapevole che i suoi giorni presto sarebbero finiti, temeva che suo figlio non avrebbe avuto i mezzi economici per terminare serenamente gli studi.
Lo guardai perplesso. Lui, come al solito, mi lesse nel pensiero: “In vita mia non sono mai riuscito ad arricchirmi. Perché non riesco a farmi pagare la parcella da una donna che ha il marito in galera, da un cliente che vive di espedienti, da un ragazzo di strada, da un immigrato”.
In effetti, ha seguito decine di processi e processini politici aperti in quindici anni contro il movimento a Cosenza. È stato uno di noi prima dentro le piazze, poi nei tribunali. Non siamo mai riusciti neanche lontanamente a dargli un centesimo, nemmeno i soldi delle fotocopie, che spesso scuciva di tasca propria, a volte di nascosto.
Insomma, sembrerà un’eresia: non riusciva a fare l’avvocato, almeno nel senso borghese del termine. Semplicemente, un Difensore.
Ecco perché in quel pomeriggio di giugno, quando l’ho incontrato serenamente per l’ultima volta, era felice: uno dei suoi figli aveva scelto una via diversa dalla sua. Peppino sapeva che essendo un Mazzotta, sarebbe stato nella difficoltà oggettiva di trasformare, senza scrupoli, il proprio lavoro in profitto.
Il notaio, invece, è una professione che ti permette anche di aiutare i più deboli, senza ricorrere a quel cinismo che purtroppo in taluni casi è necessario per fare l’avvocato o diecimila altri “mestieri”.
Avrei voluto piangere. Riuscii a trattenermi fino al pianerottolo. Davanti a lui, che ha sempre affrontato la malattia con dignità da guerrigliero, non volevo cedere alle lacrime.
Lui era Peppino. Ci ha insegnato a lottare, vivere, difendere i deboli. E alla fine ci ha insegnato a morire con dignità. Come ogni padre dovrebbe saper fare.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano della Calabria, 26 novembre 2005

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