La favela dei Rom

David e Marius frequentano il liceo scientifico di Cosenza. A scuola ottengono voti alti. Sono entrambi rom. Vanno su e giù per le spiagge delle coste calabresi, ma non sono in vacanza. Ogni mattina si alzano alle 5. Alle 7 sono già operativi insieme ai loro genitori: rivendono i prodotti che comprano all’ingrosso dai cinesi. Si alzano presto per necessità lavorative e per cause di forza maggiore. Nelle tende dell’accampamento in cui vivono da poche settimane, infatti, è difficile sostare, perché la temperatura interna supera i 50°. Sono in tutto 45, ognuna di 10 posti, cosa che rende impossibile ogni forma di privacy familiare. I fornelli per la cottura dei cibi sono 14 per 450 persone e funzionano in modo alternato, a causa della periodica mancanza di corrente elettrica. Alcuni fra i Rom hanno provveduto a modo loro, allestendo angoli di cottura estemporanei fuori dalla tendopoli, nell’area di parcheggio sottostante la stazione ferroviaria. Circa 150 i bambini, molti dei quali affetti da febbre e dissenteria. Ma in questa situazione può accadere di tutto: dal tifo alla salmonella e via dicendo. Nessuna possibilità di installare un frigorifero che permetta la conservazione di alimenti o medicinali specifici. I singoli nuclei familiari, sistemati al loro interno, sono poi separati semplicemente da un lenzuolo, cosa che rende impossibile ogni forma di intimità.
La tendopoli dei Rom cosentini di Vaglio Lise è una piccola Korogocho di Calabria, una favela dove umanità e buon senso non albergano. Tutto è dettato da logiche securitarie ed emergenziali. Si ragiona con la pancia, non con il cervello: a seguito di una sentenza del TAR che ordinava lo sgombero dei locali della stazione ferroviaria dove i rom erano stati alloggiati dopo l’incendio della primavera 2014, quasi 500 persone, parte delle quali provenienti dalla vicina baraccopoli rasa al suolo, sono state deportate e parcheggiate, senza formale preavviso, in un’area sottoposta a quotidiana sorveglianza a motivo di una loro presunta pericolosità.
Le associazioni (Sentiero Non Violento, San Pancrazio, Scuola del Vento, Ercolino Cannizzaro, Lav Romanò, Moci, La Spiga, Amnesty International, Piccole Sorelle di Gesù, Circolo Culturale Popilia, Ambulatorio senza confini “A. Grandinetti” – Auser e La Kasbah) inveiscono con rabbia contro il Comune: “La tendopoli è recintata e vigilata quotidianamente dalla polizia municipale, ed è attrezzata con apposite telecamere adibite al controllo di ogni attività”. Insomma, una prigione a cielo aperto, “dove si contravviene ad ogni indicazione governativa che invita, in questa estate torrida, a tutelare la salute con accorgimenti precauzionali opportuni e tempestivi. E invece le brandine fornite sono simili a quelle da spiaggia, le docce erogano per buona parte della giornata solo acqua fredda”. D’altronde, l’assunzione dello stato d’emergenza è un classico nella gestione della questione Rom. Così come la collocazione dei campi in “nonluoghi”, in prossimità di frontiere, vicino ai cimiteri, accanto a stazioni, nei pressi di discariche, tra gli svincoli di autostrada. I Rom vengono trattati alla stregua di spazzatura. Nessuno li vuole sul proprio territorio. La sindrome nimby (not in my back yard, “non nel mio giardino”) raggiunge il culmine quando si tratta di identificare aree per la residenza di Rom, sinti e camminanti. Esiste un problema di logica elementare nelle politiche di “delocalizzazione” dei Rom. O si trova un luogo isolato da tutto e da tutti, oppure ci sarà sempre qualcuno per cui la delocalizzazione è in realtà una “localizzazione” a casa propria. Per questo si finisce per destinare i campi a “nonluoghi”: spazi senza alcuna determinazione geografica, storica e umana che, secondo la definizione dell’antropologo Marc Augè, sono svuotati di ogni riferimento per chi li attraversa. Creano smarrimento, isolamento, sono pienamente funzionali al controllo. L’escamotage di chiamare i campi “zone di transito”, come anche nel caso della tendopoli di Vaglio Lise (che il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto (FI) ha definito “una soluzione provvisoria”) risponde a pieno al presunto, e mai dimostrato, luogo comune sul nomadismo dei Rom: “Se sono nomadi girano; se girano, non sono legati a un territorio, per cui possono ben vivere in roulotte, container e tende”.
Sul presunto carattere “temporaneo” di questa sistemazione, emergono le maggiori perplessità delle associazioni antirazziste. Se infatti si confermasse la linea di totale immobilismo mantenuta in questi anni dai locali uffici preposti ai servizi sociali ed alla salute, è chiaro che la situazione odierna è destinata a divenire definitiva, a meno che nei piani di prefettura e digos non sia già prevista una nuova raffica di espulsioni su base etnica, che riproporrebbe uno strumento già sperimentato nel 2009 a Cosenza. All’epoca furono i tribunali a bloccare i fogli di via, rilevando una serie di vizi procedurali. La procura aprì pure un fascicolo per invasione di suolo pubblico, non solo a carico degli occupanti rom. Pare ci fosse pure un capitolo riservato alle responsabilità di quanti, all’interno delle istituzioni, non fecero il proprio dovere in termini di accoglienza e controllo del territorio. Ma di quel capitolo non si parla più, nelle stanze del tribunale di Cosenza.
Negli anni successivi sono cadute nel vuoto tutte le proposte avanzate dal mondo dell’associazionismo. Le autorità locali hanno ignorato l’Agenda Rom, un corposo documento condiviso all’unanimità dagli abitanti del villaggio di lamiere e cartone sorto sul fiume Crati. L’Agenda indicava le possibili tappe per giungere senza traumi al superamento della baraccopoli. Ignorata, cancellata, sparita!
Intanto negli ultimi giorni centinaia di rom tra quelli sgomberati, in totale autonomia, hanno provveduto a trovare case e mansarde in affitto. Numerose le famiglie alloggiate nel centro storico e in periferia. Il nucleo più consistente si è insediato a Bisignano, in provincia di Cosenza, dove da anni decine di migranti vivono perfettamente integrati con la popolazione locale, al riparo dalla spettacolarizzazione negativa che scaturisce dalla propaganda xenofoba dei media mainstream.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti – (Cosenza)
il manifesto, 16 luglio 2015
(una delle tende allagate dopo la pioggia)

una delle tende allagate dopo la pioggia - Copia

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