La scuola nell’era Renzi: il ritorno di Pinocchio e l’ipocrisia dei BES

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Negli ultimi anni il sistema scolastico italiano ha “scoperto” l’esistenza del diffuso disagio sociale, esistenziale e psicologico che da sempre affligge una parte consistente degli alunni e delle alunne, spesso conseguenza delle diseguaglianze esistenti nella nostra società. Bambini e ragazzi che presentano difficoltà di apprendimento o provenienti da contesti familiari disagiati, sono stati etichettati con l’infelice definizione B.E.S., acronimo di Bisogni Educativi Speciali, forse riflesso involontario di un’inconscia contrazione dell’odioso antico termine BEStie (cosiddetti “ciucci”) che nel ‘900 una parte del corpo docente adoperava per apostrofare gli elementi in ritardo nella preparazione scolastica.
In parole spicciole, sono loro i moderni “Pinocchio”. Secondo gli scienziati dell’educazione, la categoria dei BES include una vasta tipologia di soggetti che presentano “svantaggio sociale e culturale, disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”. Le istituzioni chiariscono che ”il Bisogno Educativo Speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o apprenditivo, dovuta all’interazione dei vari fattori di salute e che necessita di educazione speciale individualizzata”.
Ma chi sono realmente i BES? Sono ragazzi che non hanno sviluppato l’attitudine alla lettura, all’ascolto e al rispetto delle consegne, provenienti spesso da contesti familiari in cui i genitori usano la forza fisica per “educare” i propri figli. I parenti più stretti di questi alunni entrano ed escono dalle carceri. A volte tali giovanissimi soggetti non hanno mai conosciuto i propri genitori. Essendo privi delle capacità di leggere, scrivere e far di conto, non riescono a stare al passo con i propri compagni. E reagiscono in tre modi: si estraniano dal contesto della classe, assumono il ruolo di turbativa costante dello svolgimento delle lezioni, abbandonano la scuola. Avendo ricevuto dagli adulti una modalità relazionale basata quasi esclusivamente sulla violenza verbale e fisica, non rispondono positivamente a stimolazioni didattiche e richiami orali. Anche quando fingono di farlo, allevano rancore nei confronti del soggetto educante.
Come spesso è accaduto nella storia delle istituzioni deputate alla pubblica istruzione in questo Paese, allo sforzo di osservazione analitica di una problematica sociale non si è accompagnata una coerente determinazione degli strumenti idonei alla risoluzione della medesima. Fiumi di circolari, indicazioni ministeriali, corsi di formazione, seminari e convegni sulla tematica dei cosiddetti BES, sono serviti a sperperare le già esigue risorse economiche disponibili, senza sciogliere il dilemma del CHE FARE. Demandando all’autonomia dei singoli istituti scolastici la scelta dei percorsi educativi e formativi da intraprendere, di fatto gli organi centrali di governo della scuola hanno confinato la categoria del BES in un limbo normativo: una dimensione intra-extra scolastica più adatta a marginalizzare che ad includere tanti giovani allievi. A parte rari casi di scuole capaci di attrezzarsi per un reale accompagnamento alla responsabilità dei cosiddetti “casi difficili”, in gran parte del restante panorama nazionale tali soggetti sono relegati in una dimensione didattica vegetativa, privi di qualsiasi serio intervento di supporto, ospedalizzati, sballottati tra bocciature, provvedimenti disciplinari e convocazioni dei Servizi sociali.
La sostanziale ignavia istituzionale e la conseguente inanità delle misure d’intervento dinanzi a tale presunta tipologia di alunni, hanno trovato conferma alla vigilia dell’odioso rituale delle prove Invalsi, vanagloriosa e italica pretesa di misurare i processi di apprendimento a colpi di quiz. Con renziana freddezza, l’anno scorso il MIUR ha deciso che “per quanto riguarda gli studenti con svantaggio socio-economico, linguistico e culturale, la prova deve essere svolta, i risultati inclusi a quelli dell’intera classe, non va dato nessuno strumento compensativo”. (Pare che in occasione degli esami 2016-17 le cose cambieranno, ma questo governo ci ha abituato ad annunci roboanti che poi si sfarinano alla prova dei fatti).
Il ragionamento è cinico nella sua determinazione di ribaltare il senso comune piegando il riconoscimento della diversità alla necessità di misurare i livelli di apprendimento, camuffando tale approccio con un posticcio principio egualitario.
L’Italia è un luogo in cui l’aggettivo “speciale” annuncia e ratifica lo “stato d’eccezione”. Ci sono leggi speciali, provvedimenti speciali, uomini e donne speciali. Tutto concorre a legittimare una condizione di perenne e anormale normalità. È ovvio che nel momento in cui si definiscono “speciali” i bisogni di migliaia di adolescenti, si autorizza il sistema scolastico e congelarne le aspettative, limitarne le prospettive, arginarne le peculiarità.
Se volessimo ricollocare il nostro sistema educativo nella cornice umana dalla quale è stato strappato dai processi di aziendalizzazione dell’ultimo ventennio, forse la definizione migliore per tali giovani soggetti in crescita dovrebbe essere Alunni Non Didatticamente Omologabili: A.N.D.O.
Ma ciò comporterebbe la consapevolezza, da parte del corpo docente, del proprio ruolo di omologatori. E salterebbe fuori anche uno dei principali limiti della scuola odierna: l’omologazione dei percorsi didattici, la loro funzionalità al neoliberismo e l’epurazione di contenuto costituente che ha interessato le cattedre scolastiche a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso.
Realizzata questa doverosa premessa, diventa obbligatorio tentare di invertire la rotta e individuare dei possibili percorsi didattici che favoriscano l’inclusione reale degli A.N.D.O., in virtù dell’autonomia di cui alcune scuole godono perché non ancora brutalizzate dalla recente ondata dei presidi-dirigenti-manager.
Come evitare che questi ragazzi vengano imprigionati nelle aule e costretti al silenzio con metodi coercitivi, espulsi dal ciclo d’istruzione o abbandonati nei corridoi delle nostre scuole?
Semplice: sono necessari sentimenti, sensibilità e risorse economiche che consentano l’attivazione di docenti, insegnamenti, spazi e strumenti ad hoc. Non incuta timori nelle corporazioni intra-scolastiche la proposta di individuare specifiche “risorse economiche”. Negli ultimi anni sono stati spesi miliardi di euro per attività di facciata e apparecchiature tecnologiche spesso inutilizzate e accatastate negli scantinati delle scuole. Non sarebbe un crimine se qualche soldino si spendesse anche per favorire l’inclusione di alcune decine di migliaia di ragazzi e ragazze che con i nostri metodi obsoleti nelle aule non trovano cittadinanza.
Claudio Dionesalvi

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