La svolta 24 anni dopo, Bergamini non si è suicidato

La mezzala di Argenta non si è ammazzata. Non poteva essere che così. Amava troppo la vita per farlo. Un ragazzo pieno di entusiasmo e di brio. Come brioso era il suo gioco in mezzo al campo. Un furetto, tutto corsa e polmoni. Denis Bergamini, quella mattina di 24 anni fa sulla Jonica, sotto quel maledetto camion non c’è finito da solo. “L’atleta venne travolto dal camion quando era già morto” ha accertato una perizia fatta dai carabinieri del Ris di Messina. Ed ora, dopo ben 24 anni, la pentola della verità inizia a scoperchiarsi. Un avviso di garanzia per concorso in omicidio volontario è stato notificato a Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989, investito da un camion. L’avviso è stato emesso dalla procura di Castrovillari che ha riaperto il caso, troppo frettolosamente archiviato come suicidio nel lontano 1992.
Dunque non sono pazzi, quelli che non hanno mai creduto nel suicidio di Denis. Non era matto lo scrittore e calciatore Carlo Petrini che alla vicenda di Denis ha dedicato un libro, “Bergamini, il calciatore suicidato”. Petrini era arrivato molto vicino alla verità. Forse, avrà anche capito che il movente era da ricercare nella vita privata del giocatore. Peccato che di tutto questo non c’è traccia nella sua controinchiesta, troppo adagiata sull’ipotesi della pista malavitosa.
L’avviso di garanzia per concorso in omicidio è il primo risultato del lavoro svolto dal procuratore Franco Giacomantonio e dal sostituto Maria Grazia Anastasia. Non rappresenta un segnale di colpevolezza dell’indagata. Al contrario, all’esito delle verifiche e di un eventuale procedimento la signora Internò potrebbe risultare innocente, estranea ai fatti, se non addirittura parte lesa. Eppure, a distanza di 24 anni dai fatti, quest’ultima iniziativa degli inquirenti significa almeno tre cose. Anzitutto è evidente che all’interno di commissariati, caserme, tribunali e questure del territorio cosentino e di altri centri della Calabria, hanno operato, e forse ancora operano, persone di dubbia onestà: inette, nella migliore della ipotesi; disoneste e colluse col crimine, nella peggiore, perché complici o artefici dell’insabbiamento e del depistaggio di questo come di chissà quanti altri delitti. Significa anche, per fortuna, che all’interno delle medesime istituzioni operano pure soggetti intenzionati a perseguire la giustizia e onorare il contratto di lavoro stipulato con lo Stato. I primi esiti delle indagini confermano, infine, che l’amore di una sorella nei confronti del proprio fratello, è capace di sopravvivere alla morte, e di rimuovere il roccioso tappo di menzogne, posto da mani infami dinanzi alla verità sulla sua scomparsa.
Si chiama Donata Bergamini. È la sorella di Denis. Ha lo sguardo dolce, ma a tratti si comprime in espressione sofferente. Carica di una dignità tutta emiliana, non è più una ragazza. Ma in questi anni ha dimostrato coraggio, perseveranza e un’incoscienza che soltanto un’adolescente potrebbe sfoderare. Ci vuole incoscienza a sfidare il silenzio. Donata ha combattuto l’omertà, imparando a pesare le parole, scegliendo volta per volta le mosse giuste da compiere. La strada tra Ferrara e Cosenza è divenuta la sua casa. Su e giù in continuazione, per anni, incurante dei sorrisetti di scherno che spesso ha trovato sul suo cammino. Ha avuto la lucidità di non arrendersi e di cercare gli alleati giusti. Li ha trovati sui social network, nelle redazioni dei migliori media, nei centri più sperduti del Cosentino, dove le popolazioni locali hanno aderito alla sua campagna. Ha avuto l’acume e la fortuna di incontrare un avvocato geniale. Si chiama Eugenio Gallerani. Già negli anni novanta ebbe il merito di vedere lontano, quando riuscì a scagionare persone innocenti accusate di aver commesso i delitti della Uno Bianca. Sul caso Bergamini ha compiuto un capolavoro giudiziario. Gallerani non ha commesso l’errore di indicare i possibili nomi degli assassini. Si è limitato a evidenziare tutte le incongruenze delle precedenti indagini, imboccando agli inquirenti una sola indiscutibile certezza: Denis non si è suicidato. Chi ha indagato sulla sua morte, ha commesso, o ha voluto commettere, errori madornali.
Nelle precedenti indagini, nessuno volle tenere conto delle macchie di sangue sospette sul predellino laterale del camion che secondo la versione ufficiale avrebbe investito accidentalmente Denis. E pare che ci fossero grosse anomalie persino nei dati forniti dal cronotachigrafo, cioè la “scatola nera” dell’Iveco 180 che lo investì. Nessun credito fu dato all’autopsia effettuata dal dottor Francesco Maria Avato. Sin dal principio, chiariva che c’è stato un unico punto d’impatto tra l’autotreno e il calciatore. Escludeva il trascinamento, parlando piuttosto di un “sormontamento” con il corpo già disteso al suolo. Nel cadavere si riscontravano tracce di alcol etilico pari allo 0,6 e una sofferenza polmonare. Però il giovane era astemio e non ha mai avuto problemi respiratori. Qualcuno ipotizzerà un possibile uso di narcotico a danno della vittima. Dal processo, il camionista uscirà assolto. Nel ’92 l’appello a Catanzaro, e la conferma del verdetto per non aver commesso il fatto. Nel ’94, in seguito alle pressioni di papà Domizio Bergamini, l’inchiesta è stata riaperta, ma subito chiusa per motivazioni oscure. Frattanto, a casa della famiglia del calciatore arrivavano lettere anonime contenenti strane fotografie ritraenti sacchetti e bustine che sembravano essere uscite da un fascicolo d’indagine. Nel 2011, la riapertura dell’inchiesta. Un anno dopo, il deposito di una nuova perizia firmata dal medico-legale Roberto Testi e dal professor Giorgio Bolino confermava i risultati del lavoro svolto a suo tempo dal dottor Avato. Negli ultimi mesi, a Cosenza si sono diffuse voci di minacce ai danni di potenziali testimoni. A darne notizia il giornalista Gabriele Carchidi che proprio in questi giorni ha incassato due risultati favorevoli. Querelato dalla signora Internò per l’insistenza con la quale ha puntato l’indice contro di lei, scrivendo numerosi servizi sul settimanale che dirige, Cosenza Sport. È stato l’unico, nei mesi scorsi, a sollevare un altro caso, quello del trasferimento in altra città e ad altre mansioni, dei carabinieri del cosiddetto “Gruppo Zeta”, un pool che ha scavato nella tragedia di Donato Bergamini, scoprendo elementi importantissimi. Carchidi ha rimediato un’altra querela, stavolta dai vertici locali dell’Arma. Ma proprio pochi giorni fa, il Consiglio di Stato ha dato ragione ai carabinieri del “Gruppo Zeta” annullandone il trasferimento.
Claudio Dionesalvi- Silvio Messinetti (Cosenza)
il manifesto, venerdì 17 maggio 2013

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