«La mafia? Combatterla non spetta solo agli specialisti»

Intervista a Don Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio, in prima linea nelle lotte sociali, dopo lo scioglimento per mafia di diversi comuni della Calabria
Poche settimane fa il consiglio dei Ministri ha ordinato lo scioglimento per infiltrazioni mafiose dei consigli comunali di Lamezia, Cassano, Isola Capo Rizzuto, Petronà e Marina di Gioiosa Jonica, ricadenti in quattro delle cinque province calabresi. Il presunto scontro tra Stato e mafia in Calabria continua ad alimentare dispositivi securitari pervasivi. Il secolare protrarsi di questo braccio di ferro induce a porre delle domande. Se la ‘ndrangheta ha globalizzato il proprio raggio d’azione scegliendo i canali della finanza multinazionale, ha ancora senso il criterio etnico adottato dagli organi repressivi nel perseguirla?
La piana di Sibari è uno dei territori meridionali più prosperi e carichi di contraddizioni. A guidare la diocesi del suo centro più importante, Cassano allo Jonio, da due anni è Francesco Savino: un uomo che per la vicinanza alle problematiche sociali e le sue posizioni spesso scomode, ricorda il ruolo in passato assunto nella Locride dal vescovo Bregantini. Oltre a favorire con iniziative spontanee l’accoglienza ai numerosi migranti presenti nella Sibaritide, in questo biennio Savino si è schierato dalla parte dei locali comitati per i beni comuni, assumendo posizioni decise in alcune battaglie ambientaliste come quella contro le trivellazioni per le ricerche petrolifere nel mare Jonio. In merito alla presenza delle organizzazioni criminali, ribadendo il suo appoggio all’operato delle procure, è tra i pochi a riconoscere che qualsiasi azione di contrasto si rivela inefficace se non si accompagna a un intervento concreto a sostegno della dignità di un’ampia fascia della popolazione priva di tutele, diritti sociali e servizi.
Don Savino, il consiglio comunale di Cassano allo Jonio è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Lei ritiene che questo tipo d’intervento da parte dello Stato abbia mai prodotto risultati significativi?
Lo scioglimento per infiltrazioni mafiose degli enti locali è un atto dovuto dello Stato contro le organizzazioni criminali. Sappiamo bene come i mafiosi tendano a condizionare le amministrazioni pubbliche, per dirottare a loro vantaggio risorse che dovrebbero servire per il bene comune e soprattutto per i diritti dei più deboli. Contrastare questa deriva è molto importante, perché essa alimenta la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, li allontana da esse e, come in un circolo vizioso, ne rende più facile il condizionamento mafioso. Non sono a conoscenza di studi o statistiche sugli effetti che le procedure di scioglimento del consiglio comunale hanno sortito. Alcuni Comuni sono stati più volte commissariati per infiltrazioni mafiose. Ritengo che l’illegalità non riguardi solo gli organi elettivi ma anche l’apparato burocratico, per il quale transitano gli appalti pubblici. Non penso che l’attuale legislazione consenta di licenziare o trasferire un funzionario che si è lasciato corrompere o condizionare dai mafiosi.
Vive a Cassano da più di due anni. Secondo lei esistono delle complicità tra una parte del notabilato locale e le organizzazioni criminali? Soltanto le fasce più povere della popolazione sono contigue alle ‘ndrine oppure una certa borghesia parassitaria ha le sue responsabilità qui come nel resto del Mezzogiorno e anche nel nord del Paese?
Non credo che la realtà di Cassano sia un unicum. Da molti segnali colgo che in Calabria vi è una significativa presenza di organizzazioni legate alla ricca borghesia che tendono a condizionare la vita sociale legittimandosi con la beneficienza. Il risultato di qualche indagine lascia intendere una certa disponibilità di questo mondo ad investire le proprie risorse in attività illegali come l’usura. Indagini della magistratura hanno evidenziato il ruolo di condizionamento della pubblica amministrazione esercitato da comitati d’affari, di cui mafiosi, amministratori corrotti e professionisti senza scrupoli sono protagonisti. La ‘ndrangheta ha bisogno di questa “area grigia” nella quale uomini “insospettabili” creano le condizioni favorevoli per scambi illeciti. Diversa è la situazione delle persone più povere. Non posso giustificare chi collabora con i clan a causa di necessità primarie ma mi rendo conto che, quando non si ha lavoro, quando si perde la speranza, il fascino del guadagno facile è molto forte. Sappiamo bene che, con la mafia, i poveri hanno solo da perdere: i mafiosi non aiutano nessuno ma sfruttano chiunque per interesse. Abbiamo tutti il dovere di offrire risposte ai più deboli per animare speranza di cambiamento possibile nella legalità. E questo riguarda anche le parrocchie e le associazioni ecclesiali e la Chiesa tutta.
Diverse associazioni conducono una battaglia culturale contro la ‘ndrangheta. Eppure non c’è il rischio che la convegnistica e le manifestazioni finiscano per parlare al cuore di persone già estranee alle mafie? I figli della malavita, in qualche modo, non rimangono immersi nella palude senza che nessuna istituzione offra loro un’alternativa al di fuori del solito vortice malaffare-latitanza-galera-cimitero?
L’antimafia deve proporre segni concreti di accoglienza e promozione della dignità umana a sostegno di chi è senza lavoro, di chi è ignorante, di chi è schiavo della droga, di chi è escluso per il colore della sua pelle, di chi ha commesso un reato e vuole cambiare vita. Questo non è un compito delegato agli “specialisti della solidarietà”, deve essere un impegno di tutti: insegnanti, imprenditori, famiglie, studenti, amministratori, associazioni, cooperative. Serve un cambiamento culturale. Serve uscire dalla cultura dell’individualismo ed accogliere la cultura della corresponsabilità. È indispensabile lavorare nel campo dell’educazione utilizzando linguaggi e segni nuovi. Anche i “figli della malavita” non devono essere estranei. Ci sono tanti esempi di percorsi che – attraverso l’educazione ed il lavoro – hanno portato a scelte di rottura di “figli” rispetto ai padri. Occorre parlare ai cuori con il linguaggio dell’amore, della solidarietà gratuita, della verità, del vangelo vissuto con coerenza, per richiamare ad una conversione personale e civile chi calpesta la vita degli altri, chi produce la povertà per servirsi dei poveri, chi ne sfrutta la debolezza.
Spesso ci si appella alla “cultura della legalità”. Ma legalità è sempre uguale a diritti? Se esistono delle leggi ingiuste, ci sono dei diritti che la legalità non riesce (o non vuole) garantire?
La legalità è eticamente fondata se tutela chi non ha strumenti per autotutelarsi. La Costituzione italiana lega in modo strettissimo legalità e diritti, per esempio con l’articolo 3, nel quale impegna la Repubblica democratica a rimuovere gli ostacoli alla libertà e all’uguaglianza di tutti i cittadini.
In Italia si sta diffondendo sempre più l’idea che la qualità della vita possa migliorare inasprendo le pene verso corrotti, ladri e delinquenti. Più giustizia penale, dunque. Non crede che il vero nocciolo del problema sia l’assenza di giustizia sociale?
Punire mafiosi, corrotti e, aggiungerei, gli evasori fiscali è un’esigenza fondamentale, proprio perché essi sottraggono le risorse destinate a garantire la giustizia sociale che non può prescindere dal diritto alla salute, dal diritto all’istruzione, dal diritto al lavoro, dal diritto alla pensione, dal diritto all’acqua potabile, dal diritto alle risorse naturali.
In un contesto di disagio sociale, assenza di reddito, precarietà dei servizi e del lavoro, quando a Cassano si tornerà a votare, perché mai l’elettorato dovrebbe scegliere rappresentanti estranei alla malavita? Il clientelismo e la dipendenza dalle mafie non sono anche il frutto amaro di questa situazione?
Chiesa, associazioni cattoliche e laiche, sindacati, associazioni di categoria, abbiamo tutti il compito di diffondere la solidarietà promuovendo in rete attività culturali ed educative. Le istituzioni – scuola, università, enti locali – devono rafforzare l’offerta di servizi di qualità, orientati alla risposta reale ai bisogni delle persone. Devono cambiare molto gli uomini e le donne impegnati nella politica e nell’amministrazione. E questo non succede nell’immediato ma è importante aprire processi, come invita a fare Papa Francesco, senza scoraggiarsi.
La Chiesa individua nella famiglia un pilastro della società. Eppure un po’ tutti fatichiamo a distinguere i valori della famiglia dal familismo che poi è uno dei cardini delle mafie. Qualcuno ha fatto notare che a volte i migliori alleati delle ‘ndrine si nascondono nelle parrocchie, tra gli stessi sacerdoti. È complottismo oppure lei riconosce che in questa analisi ci sia un fondo di verità?
Non confondiamo i valori della famiglia con il familismo. La famiglia è il luogo dove si impara la solidarietà concreta, il prendersi cura gli uni degli altri, il rispetto delle regole. Quando però la famiglia chiude la solidarietà entro i propri confini, si avvelena e diventa familismo. Per questo è fondamentale un rinnovamento culturale: sugli spazi intermedi tra la propria famiglia e la famiglia umana, tra l’intimo della casa e la responsabilità della “casa comune” si gioca la partita della corresponsabilità per il bene comune.
Claudio Dionesalvi

www.dinamopress.it

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