Pina, l’amore in punta di piedi sull’orlo della guerra

Pina Belmonte è una cosentina che ha scelto di vivere e lavorare a Gerusalemme. La sua testimonianza è importante per capire quanta tensione si respiri nei territori tormentati da uno dei conflitti più sanguinosi dal secondo dopoguerra
Pinu’, che attività lavorativa svolgi? Cosa fai a Gerusalemme?
Da circa cinque anni, vivo una parte dell’anno qui. Ho iniziato in un villaggio della Palestina a lavorare in una struttura per anziani di proprietà del Patriarca Latino di Gerusalemme. Attualmente presto servizio nel cuore di Gerusalemme in una struttura per persone affette da vari tipi di disabilità.
Sei andata a vedere la partenza del Giro d’Italia?
Il giro d’Italia è partito proprio dalla zona in cui lavoro e vivo. In quel giorno tutte le strade chiuse, tanta gente proveniente dall’Europa; a essere esclusi anche in questo caso sono stati i palestinesi. Sì, perché il premier Netanyahu è stato molto chiaro con gli organizzatori del giro d’Italia: il giro non deve includere Gerusalemme est. Così infatti è stato.
È davvero così “normale” la vita quotidiana a Gerusalemme?
La vita qui a Gerusalemme non è facile, in particolare per i palestinesi. Gerusalemme vive di una calma apparente, segnata da periodi in cui il livello di tensione aumenta. Nei territori occupati il livello di tensione è naturalmente più alto. Ormai, tante cose che normali non sono, qui lo sono diventate. Perquisizioni, arresti per strada, scontri sono all’ordine del giorno. La violazione dei diritti umani qui è diventata cosa normale e quotidianità.
Qualche giorno fa a Gaza è morta una bambina di otto mesi, soffocata dai lacrimogeni sparati dall’esercito israeliano. In città arrivano queste notizie attraverso i media mainstream o viaggiano solo via web?
Il suo nome era Leila Ghandur. A differenza di quello che è stato riportato su alcuni media, i genitori negano di aver portato la figlia sotto le barriere con Israele. Le notizie arrivano sia attraverso il web che le tv locali. Sono tanti i giornalisti qui presenti; corrispondenti da varie parti del mondo ma anche tanti cronisti locali che ogni giorno rischiano la vita.
Qual è il trattamento riservato dalla polizia israeliana a quelli come te, che entrano per motivi umanitari, di studio e di lavoro?
Il trattamento non è dei migliori. Dipende. Nel mio caso sono sottoposta a severi controlli ogni volta che devo ritornare in Italia. L’ultima volta all’aeroporto di Tel Aviv “Ben Gurion” sono stata sottoposta a vari controlli e interrogatori della durata di tre ore e trenta. Dal bagaglio, alle perquisizioni corporali, alle tante domande. Mi hanno perquisito accuratamente anche i capelli oltre che tutti gli oggetti presenti nel bagaglio a mano, uno per uno, con uno speciale macchinario. Le domande erano insistenti, scrupolose, dettagliate, di vario genere; tali da metterti sotto pressione. Al gate io arrivo sempre per ultima con la paura di perdere il mio volo, ma questa è l’ultima cosa che la sicurezza aeroportuale israeliana vuole, perché non aspetta altro che chi come me vada via da qui. Con l’inizio del Ramadan i controlli sono aumentati quindi anche il numero di poliziotti e soldati. La situazione ai check point è mai del tutto tranquilla. Col Ramadan anche i controlli si inaspriscono.
Nelle immagini che hai postato, si vedono persone spintonate dall’esercito sulle scale di un edificio storico. Chi sono quelle persone?
Uomini e donne palestinesi che nel giorno della ricorrenza della Nakbah si sono ritrovati nella zona di Damascus Gate (porta di Damasco) per ricordare questo giorno.
C’è una parte della società civile israeliana contraria all’uso della forza nei confronti dei palestinesi?
Certo, la sera prima dell’arrivo della delegazione americana per lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, un gruppo di israeliani manifestava contro l’occupazione e lo spostamento dell’ambasciata. C’è una parte della società civile israeliana che non è d’accordo con le decisioni che il proprio governo ogni giorno prende nei confronti dei palestinesi.
Vista dai luoghi in cui stai vivendo, è possibile la pace?
In alcuni momenti umanamente presa dalle emozioni che provo nel vivere, vedendo in prima persona alcune cose, dico a me stessa che forse la pace non sarà mai possibile ma nello stesso tempo penso al fatto che questa terra mi ha insegnato proprio a sperare. Sì, perché questa terra non ha visto mai la pace ma non smette mai di aspettarla. Gli ultimi giorni qui sono stati difficili, però poi camminando per strada ti capita di osservare dei piccoli gesti che ti fanno sperare. Come scrive la poetessa Rafeef Ziadah: “Nessun video, nessuna immagine, li riporterà in vita. Nessun video imprimerà questo: noi insegniamo la vita, gente. Noi insegniamo la vita, signori. Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita, signori”.
Claudio Dionesalvi
1 Comment
  • Barbara De Santis
    maggio 19, 2018

    Bellissimi reportage e complimenti a te caro Claudio che con accuratezza e imparzialità riesci a parlare di argomenti così importanti.

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