Te la ricordi la “Scuola del Vento”?

Sentimmo il vento che stava spirando. Avevamo conosciuto la corrente maligna che diffonde la paura, sapevamo che all’ansia collettiva sarebbe seguita la tramontana xenofoba. Andammo in riva al fiume dove i nostri “vecchi” non ci avevano mai portato: risaliva ai loro genitori l’uso di andarsi a bagnare nel Crati, aru runzu. Noi con quel fiume avevamo smarrito qualsiasi contatto. Così per me, Giovanni, Vincenzo, Mariafrancesca, Manuelina e qualche altro attivista delle lotte sociali, la sorpresa fu doppia quando vedemmo che sulla sponda sinistra s’era formato un villaggio di cartone e lamiera. Cosa ci faceva uno slam, una favela, nella periferia ottenebrata di Cosenza, nel 2009? Loro, quelli che incontrammo e conoscemmo, erano rom provenienti dalla Transilvania, schegge di “Unione” europea, proiettate fuori dai confini della Romania, in cerca di fortuna e di cittadinanza. Facemmo subito amicizia. Noi eravamo animati da rabbia, amore e curiosità. L’indignazione nasceva dalla sconfitta: la globalizzazione si era rivelata indomabile, il neoliberismo fagocitante. Ma non accettavamo che le colpe della natura devastata, dello sfruttamento dei corpi e dell’impoverimento conseguente alla crisi economica, fossero scaricate su migranti e gitani. Era una beffa la campagna d’odio scatenata contro di loro. Milioni di persone, incapaci di comprendere le reali cause dei propri disagi, imbestialite dalla precarietà lavorativa ed esistenziale, cominciarono ad accanirsi contro gli ultimi. L’amore nostro era invece rivolto ai più piccoli: festosi, giocosi, pieni d’energia. La curiosità non era esotica. Più che raccontarci il mondo da cui provenivano, gli abitanti del villaggio ci insegnarono a riscoprire una parte del nostro: andammo insieme a pescare sul fiume, giocammo a pallone sull’asfalto, con le porte formate dai giubbotti ripiegati. Insieme a loro costruimmo una baracca. La chiamammo “Scuola del Vento”. Non sostituì quella statale ed obbligatoria. La baracca comune si limitò ad ospitare doposcuola e cineforum. All’interno si svolgevano pure riunioni, feste di matrimonio, battesimi, funerali e incontri con alunni delle scuole e studenti universitari. Era fredda, umida, malsana, infestata da topi e zanzare, a rischio incendio, come tutte le altre. Cinque anni sono pochi o sono tanti? Tanto durò “La Scuola del Vento”. Poi arrivò il fuoco a divorarla, insieme a tutta la baraccopoli. Il resto lo fecero le ruspe dell’amministrazione comunale, che col sorriso sulla bocca mandò via tutti, dimenticando però di attivarsi per capire dove sarebbero andati a finire, quegli 800 corpi. Molti di loro tornarono in Romania, forse. Altri trovarono invece un tetto nei vasci di Cosenza Vecchia, con le immaginabili conseguenze sociali che ne sarebbero scaturite. Di certo la baraccopoli era da smantellare, però al Comune non interessava nulla del problema sociale: l’importante era eliminare quella “bruttura”. Così oggi, dove c’era la baraccopoli, c’è una mega-discarica abusiva: montagnole di copertoni e polistirolo, accumulati e dati alle fiamme due settimane fa da mani che rom non sono.
Cosa rimane della “Scuola del Vento”? Nulla, per chi ritiene che le esperienze sociali siano fatte di soldi, cemento e strutture organizzative che scimmiottano quelle dei partiti e delle multinazionali. Tanto rimane invece, per chi è convinto dell’importanza di seminare la mente umana e munirla di anticorpi contro la paura irrazionale, la solitudine e l’intolleranza. Molti anni fa, qualcuno seminò qualcosa in un’altra baraccopoli, quella di Gergeri, dove vivevano i rom italiani. Qua e là, pur se distanti nel tempo e nello spazio, ogni tanto quei semi li vediamo germogliare.
Claudio Dionesalvi

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