L’evasione riuscita: Dionesalvi racconta lo Smilzo

Settimane addietro, un mio laureando mi chiese che volesse dire la frase in cirillico che uso come status su Whatsapp. “Ieri ho ingaggiato un’estenuante battaglia contro un pesce vela”. Una frase nobile che esprime, però, con la poesia un sentimento tremendamente terreno, quasi carnale: il sentimento di chi si misura con le proprie angosce, che fanno muro e barriera fuori e dentro di noi. La storia che Claudio Dionesalvi racconta nel romanzo breve “L’evaso. Partita a bocce con la libertà” (Sensibili alle Foglie, 2019), partendo dai resoconti e dalle memorie di Francesco Pezzulli, ha il sapore di questo tarlo, riesce a trasformarlo anzi in un solare manifesto contro l’assuefazione alla schiavitù. Non c’è dubbio, del resto, che tra le dipendenze più gravi dei giorni nostri ci sia proprio l’abitudine a non essere liberi, a non vivere le ingiustizie come quelle ferite in faccia che lascia il freddo pungente le notti d’inverno. Accettiamo che la mancanza di libertà, nelle carceri, suicidi detenuti, agenti, operatori; accettiamo che la mancanza di movimento, nelle grandi migrazioni, suicidi naufraghi e naufraghe; accettiamo che la crisi economica suicidi chi non riesce a pagare un affitto o a portare avanti una famiglia. L’antidoto alle tragedie è sempre e solo uno: la presa di coscienza, che sa nascere dall’autoironia e dall’ironia.
Divertimento, nelle pagine di Dionesalvi, ce n’è molto. Il divertimento di una scrittura asciutta, curata, saporita di immagini secche e veloci, il divertimento di chi sa guardare la vita indietro senza farsi sconti (e senza farne nemmeno a lei). La storia è nota, almeno in parte, alle cronache cosentine, ma oltre alle peculiarità locali riesce ad avere un respiro universale. Un uomo sottoposto a processo, nell’aula bunker dov’era alla sbarra il gotha delle famiglie della ‘ndrangheta cosentina, esce semplicemente dai locali d’udienza, con naturalezza: nessuno se ne accorge; l’invisibilità è la dote naturale del protagonista, lo Smilzo, tumultuoso riferimento di un gruppo criminale non del tutto allineato alle cosche egemoni che dimostra, persino al Sud, come la criminalità non sia per forza tutta e solo sotto l’etichetta “mafiosa”, ma viva di contraddizioni, storie di quartiere, ingiustizie, reazioni sbagliate e scelte avventate. La stampa, anche quella nazionale, scomodò scenari da banda della Magliana, da narcos latinoamericani: servizi deviati che liberavano gli schiavettoni giusti al momento giusto; boss di altre città che volevano concupire il ribelle focoso; persino complotti interni alle forze pubbliche, volti a recuperare un nuovo collaborante, un nuovo infiltrato, un nuovo confidente. Scenari, appunto, buoni per Sin City, non per la cruda scaltrezza dello Smilzo, semplicemente uscito dall’aula. Come se niente fosse, mentre dietro di sé lasciava il rumore indistinto del vociare.
La fuga del Nostro ha breve durata, ma sono giorni tormentati e tormentanti, dove si riscopre la sconfinata, inquietante e meravigliosa fugacità della libertà, oltre che il peso dei propri errori. L’evasione impossibile dello Smilzo non nasce nella fuga, ha origine sin da quando la vita violenta delle borgate si era tramutata nella costante strumentalizzazione di chi aveva un interesse precipuo: che i ragazzi si sparassero addosso. Non solo nelle faide, ma anche accecati da un odio insulso, sufficientemente greve e livoroso da distrarre da tutti gli altri (grandi, enormi) problemi della città: l’eroina, la disoccupazione, la mancanza di socialità. Non c’è un rigo di piagnisteo nel flusso di coscienza che lo Smilzo fiotta attraverso la penna di Dionesalvi: anzi, c’è la tristezza di quel tempo, di quel quartiere, di quel momento, di quella storia, di quella fuga. Una tristezza incredibilmente umana, che rinnega gli orrori e che sconta il suo patire senza pretendere sconti e contemporaneamente senza doversi sentire sconfitta e abbattuta per sempre, deprivata di ogni dignità.
La Cosenza di ieri divenuta in quella di oggi una fotocopia buona per l’annalistica e per l’archivistica finalmente ci è restituita nelle sue sfaccettature concrete, che arrivano come piccolissimi, inesorabili, tocchi. Perché, dicevamo, il libro nasce a Cosenza e la sua vicenda ha un senso specifico nel vissuto odierno cittadino, ma come tutte le storie che “funzionano”, che mostrano lo sgomento e la risalita, l’ingiustizia e la speranza, l’errore e la scelta, ha tante latitudini e tante longitudini dove andare a parare. La più smisurata delle quali è l’animo di chi legge. Il volume è peraltro pubblicato da un editore cooperativo che coraggiosamente porta avanti da decenni un progetto di ricerca, di editoria sociale e antipredatoria: un valore aggiunto. “Sensibili alle foglie” non avrebbe potuto fare a meno di incontrare lo Smilzo e la sua corsa verso il presente.
Domenico Bilotti
Il Meridione, 29 giugno 2019

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