Cronache mafiose di una provincia alla ricerca della libertà

Non è una provincia «babba» quella cosentina. C’è la mafia a Cosenza, eccome. Non ha la potenza di fuoco e le ammazzatine dell’Aspromonte, del Vibonese, del marchesato di Crotone, non ha i riflettori dei media puntati addosso, ma la criminalità è ramificata, penetra i gangli della politica, droga l’economia. Claudio Dionesalvi ritorna a parlarne dopo 8 anni da Za Peppa. Come nasce una mafia (Coessenza). E lo fa con un romanzo scritto a quattro mani con lo stesso protagonista dell’evasione che si narra, Francesco Pezzulli. L’evaso. partite a bocce con la libertà (Sensibili alle foglie, pp. 112, euro 12), è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, avvincente, elettrizzante. «Laddove c’era una possibilità di fuga restarono tutti nel carcere. La possibilità di fuggire era una libertà che nessuno voleva perdere», scrive l’autore noir finlandese Gosta Agren. E la possibilità dell’evasione lo Smilzo la colse in un attimo. D’altronde, per citare Charles Bukowski: «Tutti noi abbiamo bisogno di un’evasione. Le ore sono lunghe e bisogna riempirle in un modo o nell’altro fino alla morte. E, semplicemente, non si trovano tante soddisfazioni e tante emozioni in giro. Le cose diventano quasi subito piatte e insopportabili».
C’È LA MAFIA a Cosenza, eccome. E nel territorio bruzio ci fu anche una guerra di mafia proprio come a Palermo nei primi anni Ottanta. Attraverso la storia di Smilzo, e della sua clamorosa rocambolesca evasione dall’ex bocciodromo, sede del maxi processo è raccontata la prima guerra di mafia cosentina tra le due ‘ndrine rivali, il clan Pino-Sena e il clan Perna-Pranno, che si fronteggiarono tra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta, a seguito dell’omicidio di Luigi Palermo, detto Zorro, fino a quel momento boss indiscusso della città. Smilzo, allora, con i suoi compari fece parte del cosiddetto Terzo Gruppo, fazione scissionista dalle bande che rivaleggiavano. Franco, detto lo Smilzo, in seguito finì in carcere. E il 25 febbraio 1997, circondato da filo spinato e tenuto a vista da centinaia di secondini, riuscì ad evadere. Senza alcun aiuto esterno, passando scaltramente tra carabinieri, poliziotti e burocrazie del tribunale, «perché gli sguardi di costoro, ciechi alle persone, vedono soltanto gli abiti identitari che l’istituzione ha cucito addosso». Libero dall’istituto concentrazionario, nei 12 lunghi giorni della latitanza, Franco detto lo Smilzo ebbe la possibilità di rielaborare il cammino che lo condusse nei reticoli della malavita. Ricostruì le strategie di chi ha trascinato lui e tanti giovani nella guerra di mafia.
CHIUNQUE abbia in questo territorio le sue origini ha ascoltato le narrazioni dei tempi in cui «bastava essere notato insieme agli uomini del clan rivale ed era sufficiente bere un caffè nel bar sbagliato, per beccarsi una sventagliata di mitra o una supposta di piombo sulla nuca», scrivono gli autori. È una storia di finzione ma solo in apparenza. Dionesalvi adopera pseudonimi per identificare il boss pentito «dritto e medaglione» che tenne al laccio processo e città con le sue dichiarazioni, il capo della Mobile, «il commissario Auricchio», che tiene la schiena dritta solo verso gli antagonisti. Tutti i personaggi sono riconoscibili a chi li conosce ma non con il loro nome e il resto è autentico. A cominciare dalla storia dell’evasione, dall’anelito di libertà che spinge Franco ad evadere, «perché non c’è alcuna azione da compiere fuori da una galera, che valga un solo giorno da trascorrere dentro».
Silvio Messinetti

il manifesto, 12 luglio 2019

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