Quando rischiai di non laurearmi per aver scritto la verità su piazza Fontana e Pinelli

Cari ragazzi,
vi racconto una storia che nessuno dei miei colleghi insegnanti di Storia forse mai vorrà raccontarvi. Un po’ perché non sono in tanti quelli che la conoscono, un po’ perché imbarazza dover ammettere che viviamo in una finta democrazia e quelli che blaterano di “legalità” sono tutti al servizio di uno Stato che pur di mantenere l’ordine ha ucciso degli innocenti.
È la storia della strage di piazza Fontana, a Milano, dove i servizi segreti italiani, la Nato e i neofascisti fecero saltare in aria decine di persone in una banca, il 12 dicembre del 1969. Lo rifecero negli anni successivi, diverse volte. Come era accaduto già negli anni venti, avevano paura che i movimenti operai, studenteschi, femministi e contadini facessero una rivoluzione. Così crearono un buco nero che risucchiasse tutto. E si sa che i buchi neri nascono da devastanti esplosioni. Gli stragisti sapevano che esistono almeno due tipi di caos. Ce n’è uno che genera libertà e un altro l’esatto contrario: l’ordine! Con quella bomba, creando il caos, ottennero un triplice risultato. Criminalizzarono le persone che lottavano per una società più giusta, spinsero una parte di loro a entrare in clandestinità, imbottirono di polizia un intero Paese.
Potreste pensare che la mia versione dei fatti sia esagerata e faziosa. No, quel che vi sto raccontando è stato confermato dai pochi uomini dello Stato disposti a dire la verità, da una sentenza tardiva di un tribunale, da neofascisti pentiti e persino da autorevoli giornalisti di destra. Nessuno comunque pagò per quella strage.
La ferita rimane aperta, e non solo nella coscienza di chi stava dalla parte giusta. Me ne accorsi nel 1996, quasi 30 anni dopo l’attentato, quando rischiai di non laurearmi, a causa di una frase che avevo scritto nella mia tesi. Era una tesi che parlava di tutt’altro, ma nel ricostruire il contesto storico tra gli anni sessanta e settanta avevo osato scrivere: “… l’anarchico Pinelli, lanciato dal quarto piano della questura di Milano”, dando per assodato che fosse stato ucciso e non che si suicidò, come vorrebbe la versione ufficiale. Dovete sapere che Giuseppe Pinelli fu uno dei tanti che in quei giorni finirono in questura, sospettati di essere gli artefici della strage. In Italia, ancora oggi, una persona può essere trattenuta per tre giorni in questura o in caserma, senza che un magistrato autorizzi il fermo e senza che il fermato possa vedere un avvocato. Al culmine di quei tre giorni, Pinelli volò dalla finestra, si schiantò. Morì. Non importa chi lo buttò giù. Se non altro, i vertici della polizia milanese ebbero la responsabilità “professionale” di quel delitto. Lo so bene, perché anch’io oggi lavoro per lo Stato. E Sebbene tutte le volte che lascio l’aula per due minuti, il tempo di espletare un bisogno fisiologico, io affidi la mia classe a un collaboratore scolastico, se in quei due minuti dovesse accadere qualcosa ai miei alunni e alunne, responsabile non sarebbe il collaboratore scolastico, ma lo sarei io. E ne risponderei moralmente e giuridicamente. Quindi se anche i vertici della polizia milanese, in quel maledetto 15 dicembre 1969, non fossero stati in quella stanza da cui precipitò Pinelli, fu naturale puntare lo sguardo verso di loro. Puntò su di loro la sua penna Pio Baldelli, all’epoca direttore del giornale Lotta Continua. Per questo fu querelato. Due decenni dopo, nell’università di Firenze, Pio sarebbe diventato il mio professore, il docente relatore della mia tesi di laurea. Era già anziano e malato quando si sedette al mio fianco in quel pomeriggio fiorentino. Ma quando la controrelatrice, una docente di Storia contemporanea di area PDS, contestò con veemenza quella mia frase che raccontava la morte di Pinelli, Pio cambiò colore in viso, mi fece cenno di tacere, balzò in piedi e si mise a urlare difendendo il contenuto di quella mia affermazione. Ne nacque un litigio tra docenti, che aveva ben poco di accademico. Ricordo il volto pallido di mia madre che assisteva dal pubblico. Rischiai di non laurearmi. Poi mi diedero un voto basso, sebbene io avessi la media del 28. Ma per me rappresentò una delle più grandi soddisfazioni di questa vita. Il mio mitico professore e io eravamo usciti a testa alta dalla gabbia dei leoni. È chiaro che quello scontro verbale era il riflesso di antichi rancori e fantasmi. Sono gli stessi rancori e fantasmi sui quali si regge l’Italia di oggi.
Non ero ancora nato quando scoppiò quella bomba. Pochi mesi dopo, i miei genitori mi avrebbero concepito. Mi piace viaggiare con la fantasia, immaginare le giornate vissute  dalla mia famiglia quando ancora non c’ero. Mio fratello Franco era un ragazzino. Negli anni successivi sarebbe diventato un indiano metropolitano. Già poeta in quel tempo, pregava i suoi genitori di dargli un fratellino o una sorellina. Dopo quella strage, come milioni di altri Italiani, loro avranno avuto tanta paura: “Come facciamo a mettere al mondo un’altra creatura, in questo mondo terribile?”. Da qualche parte ho letto che a volte è proprio la paura, oltre che a sprigionare odio, a spingerci a fare l’amore e magari a farci concepire una nuova vita. Chissà se accadde lo stesso per i miei genitori. Ciò mi fa avvertire inquietudine. In un certo senso, mi sento figlio di quella strage. Come l’Italia di oggi.
Claudio Dionesalvi

(lettera ai miei alunni e alunne diciottenni, se io insegnassi (mai sia) in una scuola superiore)

1 Comment
  • Arcangelo Medolla
    dicembre 12, 2019

    Grande!! Giustizia per il ferroviere Pinelli. Anarchico mite, pacifista con un grande senso di giustizia per gli ultimi. La lotta continua, sempre!!

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