E la vita mette in ginocchio la morte

Esistono fatti ed eventi che possono essere narrati attraverso la carta stampata o le telecamere. Rimane, tuttavia, il problema di rappresentare, nella loro pienezza, i corpi, gli stati d’animo, i sentimenti… e questo, in alcuni casi, diventa difficilissimo. È quasi impossibile, per esempio, affidare all’inchiostro il compito di riprodurre lo sguardo di Anna Giordano. Aveva gli occhi e le labbra del sud. È morta giovedì scorso, consumata dalla più spietata delle malattie, all’età di trent’anni. Era mamma di due bambini ed innocente almeno quanto i suoi figli. Dalle poche righe che ha scritto prima di morire, affiora la tenerezza di una fanciulla, legata alla vita e agli affetti più puri. Se non fosse per un particolare, la sua vicenda sarebbe comune a quella di tante altre persone, uscite sconfitte dalla lotta impari con un tumore. La differenza sta nel fatto che Anna ha scelto di portare avanti una gravidanza e dare la vita ad una bambina dal nome molto allusivo: Grazia. Nel sacrificio della giovane mamma, in quei disperati mesi passati a cercare di arrestare l’avanzata delle cellule impazzite, c’è tutto il senso della sfida alla morte. Ha voluto vendicarsi di quel male che la scienza non riesce a contrastare, lasciando in vita una parte di sé. La tragedia di Anna è iniziata nel ’94. Per uno scherzo maligno della sorte, la malattia ha bussato alla porta della sua esistenza, proprio in coincidenza con un evento gioioso: la nascita del primo figlio, Francesco. A pochi giorni di distanza dal parto, un dolore lancinante al fianco sinistro ha dato l’allarme. Un segnale interpretato male dai medici cosentini, che hanno attribuito quel fastidio ad una colite. Per due anni, la ragazza si è sottoposta a cure convenzionali. Poi, finalmente, qualcuno si è accorto che la patologia era ben più grave. Terribile la diagnosi: carcinoma all’ovaio sinistro. I familiari di Anna non hanno perso un minuto. Subito il viaggio della speranza. Destinazione Milano. E lì è iniziato il rituale della scienza. In questo sì, gli oncologi sono specialisti: nel trasferire al paziente e ai suoi cari le proprie ansie e l’incertezza e il senso d’impotenza che assale la classe medica, quando deve dare risposte di fronte a quella parola maledetta, che in molti hanno rinunciato persino a pronunciare: cancro. E così, la parola è passata ai chirurghi. Nell’aprile del ’97, Anna è stata operata è successivamente si è sottoposta a cinque cicli di chemioterapia. Tuttavia, i medici non hanno asportato gli organi della vita, quelli che solo qualche mese dopo, nel maggio 98, le hanno consentito di avviare la sua seconda gravidanza. In dicembre, un nuovo ricovero, ma questa volta in un centro specializzato di Monza. La cartella clinica rievoca quei giorni. In pochi centimetri di carta, appaiono frasi di segno opposto: “cellule atipiche e tumorali maligne… decisione di induzione maturazione polmonare fetale ed intervento di parto cesareo alla trentaduesima settimana”. Parole che trovano un drammatico suggello in un’altra espressione funesta: “Metastasi”.
Non è facile comprendere il grado di consapevolezza che Anna aveva maturato nel prendere coscienza del carattere incurabile della propria malattia. Di certo, ai suoi guai si aggiungeva una dote che in questi casi, forse, sarebbe meglio non possedere: era molto intelligente e, quindi, si era resa conto che non ce l’avrebbe fatta. “Lo sentiva – spiega la sorella Teresa, che non l’ha lasciata sola per un minuto – ma non ne era certa”. A quel punto il suo spirito di bambina ha ceduto il posto all’istinto della mamma, che ha preferito proteggere, e dare alla luce, la piccola Grazia.
Nel gennaio, ’99 l’ultimo disperato tentativo. Il volo verso Parigi. In un altro ospedale super moderno, i medici le provano tutte, ma la malattia avanza. Anna – come lei stessa scrive – è ridotta ad un vegetale. Tubi di drenaggio in tutto il corpo e dolori terrificanti. Teresa racconta le ultime fasi di un’esistenza sventurata: “È morta nel terrore di capire che stava morendo. Per mia sorella, la sensazione peggiore si è verificata nel separarsi da sua figlia. Ha capito che non l’avrebbe più rivista. E ancora più doloroso per lei è stato il non poter allattare la creatura che aveva appena messo al mondo. Spesso, ha dovuto sopportare le angherie del personale paramedico. Anche in Francia, gli infermieri si trasformano in bestie. Quando faceva la chemio, una sera le hanno detto di coprirsi la testa con qualunque oggetto. E quando ha chiesto spiegazioni, un’infermiera ha risposto che andava bene anche un sacco dello spazzatura”.
Il racconto dei familiari di Anna produce sentimenti opposti. Il pianto disperato raggela il sangue, riportando alla memoria l’eco di un rituale funereo degli antichi popoli mediterranei. Ma quella narrazione carica di sentimento, restituisce la fiducia nei legami affettivi tra gli esseri umani, che rendono meno arida la vita e più debole la morte.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 13 aprile 1999

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *