Punto e virgola

Come in un gigantesco videogame. Fare il cronista a Cosenza vuol dire muoversi in un enorme videogioco. Gli ambienti della città sono i “quadri”, le notizie ti danno un punteggio. I tasti del computer governano i rapporti tra oggetti e soggetti. Ma ciò che rende il paragone incisivo è l’estrema prevedibilità dei fatti, il loro carattere virtuale. Personaggi politici, associazioni, sindacalisti, imprenditori, inquirenti…tutte le comparse della scena locale hanno i caratteri tipici di qualunque altra realtà di provincia: sono imbalsamate in una condizione di privazione del tempo. I giorni non passano, l’orologio è fermo, i fatti si ripetono con inesorabile cadenza. La differenza tra Cosenza e gli altri microcosmi consiste nel fatto che qui abbiamo la presunzione e l’illusione dello scorrere del tempo. Gli eventi sembrano pieni di consistenza e, invece, navighiamo nel vuoto di una messinscena. Ogni tanto qualcuno riesce anche a fare uno scoop, a trovare una notizia “bomba”, ma si tratta di sporadici lampi di intelligenza. A volte sono proprio il risultato della volontà di scuotere la quotidianità: un impulso che nasce dall’inconscio del giornalista. Ma spesso, lo scoop è un messaggio telecomandato dai gestori della sala giochi.
Devo riconoscere, comunque, che sono stato fortunato. Non mi occupo più di calcio, e soprattutto di Cosenza Calcio. In questo, sarò eternamente grato al direttore che mi ha dato la possibilità di lavorare in altri settori. La breve esperienza che ho vissuto da cronista sportivo, è stata una specie di trauma. L’ambiente calcistico cosentino è impregnato di gelosie, odio, rancori, invidie, alleanze trasversali, finte amicizie e soprattutto una maniacale tendenza a spiare dal buco della serratura: un fatto normale nel mondo del giornalismo, ma un macigno morale per me che vivo la partita di calcio come una messa… e nessun cattolico fervente sarebbe disposto a fare il buffone in una chiesa.
Sono stato fortunato anche perché sinora non ho trovato capiservizio malati di protagonismo, assetati di comando e fissati con quell’assurda storia del giornalismo anglosassone, asettico, in cui la personalità di chi scrive dovrebbe annullarsi. La sociologia dei mass-media insegna che il giornalismo “tout court” è una bufala, un mito, l’ipocrita invenzione degli esperti di marketing, un modo come un altro per raggirare il lettore. Perché l’impronta del cronista si annida in ogni particella del discorso scritto, nell’articolazione della sintassi, nelle virgole, ovunque. Anche i lanci di agenzia, che dovrebbero rappresentare la parte più pura dell’informazione, celano un’angolazione d’analisi, nascondono messaggi mirati. Il “grado zero” della significazione non esiste!
Sono stato fortunato, infine, perché lavoro in mezzo ad un gruppo di amici e in un giornale che mi offre la possibilità di scrivere nella piena libertà di pensiero. La redazione cosentina de “Il Domani” è soprattutto questo: un insieme di amici. Non siamo stati ancora travolti da quell’assurdo spirito di competizione, che di solito caratterizza i giornalisti in carriera. Certo, è un’attività faticosa, perché è pur sempre un’azienda, che deve ritagliarsi una fetta di mercato e questo non è un compito facile in un territorio saturo di iniziative editoriali. Ma almeno per il momento, vivo questa esperienza senza pretese, prendo atto della condizione di precarietà che avvolge i prestatori d’opera di tutto il pianeta.
È un mestiere che mi offre la possibilità di conoscere situazioni di cui ignoravo l’esistenza. Quindi, lo faccio con entusiasmo. La tristezza mi assale raramente. I pensieri rallentano soltanto se devo descrivere la morte. Quando un giornalista trova una notizia, dice: “Questa me la sparo”. Un’espressione identica a quella dell’eroinomane che sta per bucarsi. Quando muore qualcuno, è tremendo pensare: “Me la sparo”, perché è un po’ come suicidarsi. Quando inizio a scrivere l’articolo, so già che alla fine devo aggiungere: “Game over”.
Claudio Dionesalvi
Teatro Rendano, marzo 1999

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