Noi c’eravamo

Genova m’è rimasta appiccicata sulla pelle. Negli ultimi cinque anni, nonostante abbia provato a scrollarmela di dosso, l’ho ritrovata dappertutto.
È un tatuaggio che di tanto in tanto s’immerge nella carne per poi riaffiorare all’improvviso. D’impeto la memoria rivive il caldo torrido di quei giorni, orfano della brezza marina; il sapore di lacrimogeni, la rivolta, la rabbia e l’impotenza di fronte all’uccisione di un ragazzo.
Non avevo ben chiaro in mente cosa sarebbe accaduto, mentre salivo sul treno che ci avrebbe portato a contestare i criminali della Terra.
Durante la notte, in viaggio, ricordo che telefonai a radio Gap. Mi chiedevano notizie sulla carovana partita dal sud. Allo speaker feci sentire in diretta il clacson del locomotore fermo in una stazione. Lui mi disse che aveva la sensazione di esserci, su quel treno.
Forse, sotto sotto nessuno di noi è mai sceso dal vagone. Proprio mentre diventa sempre più difficile storicizzare quegli eventi, raccontare e far capire il contesto… proprio quando la sensazione di scivolamento appare irrefrenabile, spuntano fate, folletti e fantasmi.
Per una specie di contrappasso dantesco, alla fine ho conosciuto quasi tutti i protagonisti volontari ed involontari di quella rivolta, ma soltanto a distanza di tanti mesi dalla fine delle tre giornate. Viaggiando lungo una barricata immaginaria e lacerante, che stenta a sgretolarsi, figure nemiche ed amiche hanno ripercorso il tragitto al contrario per venire a sud. Talune si sono impegnate a difendere, altre ad accusare me ed i compagni e le compagne imputati nel processo che si celebra da qualche anno a Cosenza contro il sud ribelle. Ho provato il calore di abbracciare Heidi Giuliani, ma anche l’irritazione d’incrociare in aula gli sguardi degli uomini dello Stato, che nel pomeriggio del 20 luglio ordinarono cariche e mattanza. Tutte le volte che depongono in corte d’assise, dimostrano lucidità sociologica nel descrivere fatti e circostanze. Sembra quasi che abbiano frequentato un apposito corso di formazione.
Davanti a noi, nonostante avvocati e compagni della segreteria legale stiano dando il massimo per sostenere lo scontro, scorre una lenta via crucis di udienze che hanno il tono di un funerale. È un rito funebre che, riscrivendola, celebra la storia alla rovescia di quei movimenti.
Per fortuna in aula c’è Francesco Cirillo, mio compagno e coimputato, che ci allieta con i suoi disegni satirici. Una volta abbiamo riso talmente di gusto, che per poco il presidente non ci buttava fuori. Si diverte a immortalare le fasi grottesche del processo. Durante una delle ultime puntate, mi ha mostrato una vignetta che ritrae il capo della digos genovese Spartaco Mortola mentre di notte si sveglia di soprassalto perché gli appare in sogno l’avvocato Tambuscio, giovane e valente legale impegnato praticamente in quasi tutti i processi per il G8. Come dire: loro sono un incubo per noi, ma noialtri lo siamo anche per loro.
Ecco, in effetti Genova ha significato un rovesciamento della semantica convenzionale. Tutto ed il contrario di tutto. All’arrivo, scesi dal treno, sembrava di assistere ad un gigantesco esperimento collettivo di invasione dei luoghi urbani. Ripartendo, sabato 21 luglio, ci sentivamo invece invasi, accerchiati, espropriati dei diritti elementari di cittadinanza. Ricordo che per mangiare una pizzetta entrammo in una delle rare rosticcerie aperte, a poche centinaia di metri dal “Carlini”. Notammo con la coda dell’occhio uno strano movimento sulla strada. Sfuggimmo per pochi istanti ad una delle tante retate improvvisate dalla polizia, che entrava nei locali e sequestrava chiunque avesse un look da contestatore.
Genova è stata anche questo: paura e desiderio. E non ho mai capito se quel treno ci abbia portato indietro nel tempo, oppure se, come nel “Pianeta delle scimmie”, ci siamo trovati catapultati in un futuro distopico, una dimensione senza più domande né risposte.
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale, n°27   luglio 2006

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