Le domande scomode del sud ribelle

Vento da mezzogiorno soffia tra le pagine di un interessante libro pubblicato da Derive Approdi. S’intitola, appunto, “Vento del Meriggio”. È un tentativo di rispondere ad una domanda sempre attuale: il sud è ribelle?
La risposta è già data. Gli autori si interrogano sul senso di parole ed episodi recenti che confortano la prospettiva di un levantamiento nei fatti già avvenuto, almeno in situazioni circoscritte nel tempo e nello spazio.
È uno slalom insidioso quello realizzato da Elisabetta Della Corte, Franco Piperno, Adalgiso Amendola, Franca Maltese, Massimo Ciglio, Oreste Scalzone, Francesco Caruso e Pietro Sebastianelli. Gli ostacoli concettuali sono rappresentati dagli avversari e dai vortici di sempre: la modernità, il meridionalismo di maniera, i luoghi comuni.
I saggi contenuti in questo breve ma intenso volume provano a ricostruire un discorso interrotto. La sfida è ardua. Rimettere in ordine idee ed accadimenti. Anzitutto, restituire contorni omogenei alle tracce disseminate negli ultimi lustri da certi pensatori che hanno guardato a sud in maniera eretica. E poi osservare sotto un’altra luce le lotte sociali, come le giornate di Cosenza nel 2002, la rivolta di Scanzano, i blocchi e gli scontri nelle diverse entità urbane e rurali della Campania trasformata in immondezzaio. Diventano tanti pezzi di un puzzle che può prendere forma e sostanza solo se l’analisi storica si estende alla media durata. In gioco c’è la sopravvivenza di intere popolazioni minacciate dalla devastazione dell’ambiente, accerchiate dalle multinazionali sempre più presenti nelle regioni del sud Italia, aggredite dalle brame fameliche di un ceto partitico locale che grazie al mito della povertà meridionale attira ed accaparra una quantità impressionante di finanziamenti pubblici, svendendo paesaggi e risorse naturali. Sindacati, partiti della sedicente “sinistra” e sindaci “illuminati”, più neoliberisti che mai, continuano a fomentare subordinazione e clientele, predicando uno sviluppo ed un incremento occupazionale che – per fortuna – non arriveranno mai. È solo così che possono mantenersi a galla: alimentando miraggi e fomentando meccanismi parassitari. Senza la legge 488, i patti territoriali, le agevolazioni agli im-prenditori, gli accordi sotto banco con le massonerie, il consenso agli inceneritori ed al traffico di rifiuti, difficilmente in territori come le Calabrie o la Campania si reggerebbe l’attuale sistema di dominio.
“Vento del meriggio” diviene allora un setaccio per fare pulizia delle scorie mentali che costringono le genti del sud a vivere in un eterno complesso di inferiorità. E da questa igiene teorica scaturisce anche la prospettiva di individuare le esperienze di democrazia sostanziale ed autonomia concreta che nelle mobilitazioni sociali si riproducono.
È scontato: uno dei primi feticci intorno ai quali bisogna fare chiarezza è la ‘ndrangheta. I partiti la strumentalizzano, i mass media la mitizzano, l’antimafia la utilizza per tirare a campare, le borghesie del sud dicono di esserne estranee ma poi si scopre che sono parte integrante delle ‘ndrine perché incarnano il loro livello più alto e presentabile. Le mafie si confermano come la giustificazione di un sistema repressivo perpetuo di cui lo Stato e i partiti si servono per assoggettare e violentare i territori adoperando leggi d’emergenza. Chi è più distante dalle simpatie di un giovane cresciuto nei quartieri delle città meridionali? Il mummificato generale del Ros che effettua i blitz nella Locride, oppure il capo-famiglia di una delle ‘ndrine che, ammanettato, ruggisce contro le telecamere quando viene strappato dal suo covo, mentre sullo sfondo vecchiette indifferenti lavorano all’uncinetto? E chi è più disumano e meno affascinante? Il boss che vive latitante nei boschi e organizza le faide, oppure il legislatore piemontese che in carcere tortura gli esseri umani col 41bis? Sono domande forti. Che il libro pone. I più critici obietteranno che nella deriva identitaria i rischi sarebbero pesanti. Dietro l’angolo, ad attendere quanti lavorano al recupero delle radici culturali di una terra, c’è la palude delle “patrie locali”, alternativa destroide ad una globalizzazione di per sé in crisi.
I pragmatici, invece, noteranno che il principale di tutti gli interrogativi rimane quello di sempre: come costruire un immaginario? Si chiederanno, cioè, se sia possibile che tra i protagonisti delle recenti rivolte meridionali si propaghi la consapevolezza del valore costituente delle lotte. Qual è la chiave alchemica per trasfigurare il genius loci e infondergli linfa sovversiva? In parole povere: come realizzare a sud pezzi di Altra società?
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale, n° 45 dicembre 2008

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