Crisi sociale. Calabria, Melfi, così muore il lavoro nel sud

“Quando senti uno che ha trenta guardie del corpo dire che la sicurezza sul posto di lavoro è un lusso, tu che ti alzi alle 3 per fare il turno ma non sai se poi ritorni a casa, o se ritorni ammalato per lavoro vieni licenziato, ti vedi negata la libertà, ti viene voglia di prendere a pugni il muro. La Sinistra fa ancora finta di non capire, ma la Sinistra che fine ha fatto?”.
Tutti d’accordo con Giovanni Barozzino: Cosenza, Melfi, nessuna differenza. Il tour meridionale di uno dei tre operai licenziati dalla FIAT e reintegrati dal tribunale della cittadina lucana, diviene occasione per aprire un ragionamento sulla morte del lavoro in Calabria. Salone di rappresentanza gremito e pubblico in piedi, martedì scorso, nel capoluogo brettio per partecipare al primo vero meeting stagionale dei Vendoliani, organizzato dal consigliere Ciccio Gaudio del gruppo comunale di SEL. Sono gli interventi della CGIL a suscitare maggiore inquietudine, sia nella drammatica analisi di ciò che resta del contesto produttivo territoriale sia sullo stato di salute della locale sinistra.
È Delio Di Blasi, aderente all’area della “CGIL che vogliamo”, a fornire dati e numeri della crisi strutturale: “la cassa integrazione straordinaria è aumentata del 468%, gli ammortizzatori sociali in deroga sono cresciuti di oltre il 50. I rapporti di Confartigianato sostengono che Cosenza è la terza provincia d’Italia per lavoratori in nero, concentrati soprattutto nei settori dei servizi, delle costruzioni e dell’agricoltura. Alle ispezioni del ministero, oltre il 60% delle aziende risultano irregolari”. Qui come in Basilicata e Campania le ristrutturazioni aziendali azzerano i diritti. “C’è un esercito di riserva impressionante. La percentuale di disoccupazione – prosegue Di Blasi – supera il 25%. Questo dato riguarda sia il privato sia il pubblico. Qualche esempio? I dipendenti delle cooperative sociali, la Multiservizi, gli operatori della Città dei Ragazzi. A tantissimi lavoratori viene negato persino il diritto al salario. Molti non percepiscono lo stipendio da 10, 11 mesi. Si rischia di attivare un’emergenza sociale vera che potrebbe divenire ingovernabile, considerando che l’ultima manovra finanziaria taglia di circa 26 milioni i trasferimenti dello Stato ai comuni dell’area urbana. Non è solo la fine del lavoro, ma anche dello stato sociale. Bisogna ripensare radicalmente i paradigmi su cui è stata costruita l’economia del territorio negli ultimi anni. Sperimentare vie nuove. Per esempio, riaprire il dibattito sul reddito di cittadinanza”.
Lo sa bene pure Giuseppe Tiano, segretario FILCTEM, sindacalista vecchia maniera. Ogni giorno rimbalza da un’azienda all’altra in uno scontro senza fine con “imprenditori” che hanno beneficiato di consistenti finanziamenti pubblici per poi procedere da un giorno all’altro con l’espianto delle fabbriche e il repentino trasloco nei paesi dell’est europeo. Nei settori chimico, tessile, energetico e manifatturiero la perdita complessiva dei posti di lavoro, in tre anni, raggiunge le 673 unità.
Massimo Covello, segretario generale della CGIL calabrese, si augura che nel comprensorio cosentino fiorisca “lo spirito di risposta” che in altre realtà meridionali ha caratterizzato la lotta contro “la concezione proprietaria del lavoro. La FIAT ha dimostrato arroganza, addirittura contrastando i deliberati legali dei giudici che riconoscono diritti inalienabili degli operai”. E c’è una piccola Melfi a sud di Cosenza, nella TGT di Piano Lago, l’unica realtà produttiva rimasta in piedi, dove prosegue la battaglia per contrattare i turni. “L’azienda – precisa Covello – sostiene di avere delle difficoltà e rivendica 21 turni di lavoro, e non 22, perché con il 22° scatterebbero le indennità previste dai contratti. Pretende di organizzare le domeniche, i festivi, in nome di una competitività che i lavoratori non vogliono mettere in discussione. Rivendicano però solo la possibilità di contrattarne le condizioni”.
Claudio Dionesalvi
il manifesto, 9 ottobre 2010

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