La schiuma dell’Alaco ha un color marrone. C’è chi esorta a berla, ma l’esercizio richiede una certa dose di coraggio. Specie dopo aver dato un’occhiata alle analisi chieste da chi con quest’acqua convive da anni e cerca di venire a capo della questione della potabilità. I test hanno dato un responso chiarissimo: le quantità di ferro e manganese sono al di sopra della norma, così come la torbidità dei campioni analizzati. Secondo i cittadini è colpa dell’invaso dell’Alaco, una diga a mille metri d’altezza, nel territorio comunale di Brognaturo, che garantisce l’acqua potabile a circa 400mila persone, a cavallo tra le province di Vibo e Catanzaro.
La Diga dell’Alaco è un’altra incompiuta. L’invaso era stato terminato da Sorical, la Società risorse idriche calabresi, nel 2004. Ma dal 2006 è cambiato tutto. C’era da render potabile l’acqua che arrivava dalla diga. E la società mista (il cui socio privato è la multinazionale francese Veolia) aveva un obiettivo virtuoso: quello di inviare più acqua ai Comuni. Come lo abbia perseguito, però, ha lasciato perplessi i tecnici. Le procedure basilari da seguire per preparare l’acqua al trattamento sono state adottate in maniera troppo rapida, approssimativa. Il risultato? Il liquido che arriva dall’invaso ha caratteristiche chimico-fisiche molto variabili. È di qualità scadente, al limite della possibilità di trattamento. Inoltre contiene, come detto, una quantità elevatissima di manganese e ferro oltre a sostanze derivanti dalla decomposizione delle piante sommerse e un forte inquinamento batteriologico, dovuto a escrementi di animali. Nonostante tutto, si è continuato con la potabilizzazione, senza neppure installare due analizzatori in continuo del ferro e del manganese.
“La diga è stata riempita senza fare le dovute bonifiche, senza eliminare la vegetazione presente sul fondo” raccontano gli attivisti del Coordinamento delle Serre per la difesa dell’acqua. Loro vivono a Serra San Bruno, 7mila anime a 800 metri sul livello del mare. Anche il sindaco di Serra è dello stesso parere. Infatti ha emesso un’ordinanza di non potabilità. Per ferro e manganese. Che è stata revocata solo ad inizio aprile, dopo 38 giorni. “L’impianto di potabilizzazione è sottodimensionato –accusa il Coordinamento- ed è concepito per trattare acque del sottosuolo, non di superficie. Abbiamo raccolto mille firme in calce a una petizione per chiedere che i dati delle analisi siano resi pubblici”.
Il paradosso è che l’area delle Serre calabresi è una delle zone più ricche d’acqua in Italia; qui s’imbottigliano 4 marchi di acque minerali “ma i nostri acquedotti erano alimentati da pozzi e oggi questi acquedotti sono stati dismessi”. Maurizio Del Re, A.D. di Sorical, ribatte alle accuse: “Noi eccepiamo sul fatto che il sindaco abbia emesso un’ordinanza di non potabilità. Facciamo 120mila misurazioni all’anno”. Per Sorical la colpa è del Comune. Per il Comune è di Sorical. Ci fosse il servizio idrico integrato, queste manfrine non esisterebbero. L’Arpacal nell’agosto del 2010, ha emesso il proprio giudizio: il problema è nell’impianto di adduzione, ovvero della diga dell’Alaco.
Un’altra incompiuta
Quella dell’Alaco è la “solita” diga calabrese, come quella del Melito (vedi il manifesto del 25 gennaio) o quella del Menta. A partire dal dato economico: a fronte di una spesa prevista di 15 miliardi di lire, l’opera è costata 150 miliardi. Un disastro progettuale (sei varianti tra il 1985 e il 1996, più nove sospensioni dei lavori) e gestionale. Con conflitti di attribuzione che rimbalzano tra Sorical (che dà la colpa alle condotte dei Comuni) e amministratori locali (per i quali il problema è l’Alaco). Lavori travagliati, sia per la costruzione dell’invaso che per l’ampliamento dell’impianto di potabilizzazione. L’appalto, per quest’ultimo, è stato bandito nel 2006: se lo è aggiudicato la ditta Idrotecna che avrebbe dovuto completare i lavori entro il 31 marzo 2008. Lo scopo: realizzare il progetto redatto dalla Sorical per trattare 600 litri di acqua al secondo. Più che le performance dell’impianto, fino a ora si sono visti i contenziosi, che hanno portato alla rescissione del contratto. I lavori sono stati affidati a piccole ditte e, ancora oggi, non sono stati completati. Per di più, ci sono perplessità sul funzionamento dell’impianto.
Fonti accreditate raccontano che, per almeno due anni, i fanghi non venivano disidratati e venivano prelevati allo stato liquido con autobotti e trasportati, con costi al di fuori da ogni logica. Le stesse fonti segnalano che le acque di risulta del lavaggio dei filtri e della disidratazione dei fanghi (che oggi non avviene), non vengono smaltite, ma reimmesse in testa all’impianto. Il guaio è che sono acque che arrivano dal trattamento di ferro e manganese, e finiscono per peggiorare le caratteristiche del liquido in ingresso e complicare il funzionamento di tutto il potabilizzatore. Un circolo vizioso del quale non si sentirebbe il bisogno. A queste latitudini, però, le dighe funzionano così. E costano dieci volte in più rispetto a quanto previsto. Qualcuno ci guadagna, si può intuire chi.
Un bossolo per il silenzio
Sergio Gambino è un ragazzone antico nei principi, moderno nel coraggio. Si scalda quando deve difendere la propria terra, sorride di fronte alle minacce. Non si lascia imbottigliare nell’immagine del martire antimafia che da queste parti, come altrove, regala alla ‘ndrangheta la più efficace delle propagande, quella che viaggia col terrore.
Sergio, figlio di Sharo, uno degli scrittori più autorevoli del Mediterraneo, ha risposto con insolita strafottenza ai vigliacchi che qualche giorno fa gli hanno recapitato sulla porta di casa una cartuccia di lupara. Nel rivendicare le proprie origini politiche e culturali – “siamo partigiani che lottano per la libertà della Calabria” – ha lanciato un chiaro segnale di sfida ai custodi dell’omertà e a chi li paga: “Ve ne dovete andare da questa regione, che è nostra!”. Nei mesi scorsi, insieme al coordinamento “Bruno Arcuri”, all’associazione “Briganti” e alla rete “Nisticò”, ha percorso le Calabrie in lungo e in largo per promuovere la partecipazione ai quesiti referendari sull’acqua pubblica. Destava una piacevole impressione sentirlo urlare in piazza contro gli invasori delle multinazionali che depredano e avvelenano questo lembo di stivale dallo stretto di Messina fino ai monti del Pollino: “Li ricacceremo da dove sono venuti, a calci nel sedere, come fecero i nostri antenati briganti che diedero filo da torcere ai Francesi”.
Quaggiù non è frequente ascoltare frasi munite di cotanto orgoglio. Anche tra i movimenti carismatici affiorati di recente, quasi tutti si guardano bene dal fare nomi e cognomi di chi combina e commissiona disastri. Sergio fa nomi e cognomi. Rientra in una vivace minoranza di attivisti-pensatori, che negli ultimi anni è andata allargandosi per effetto soprattutto delle buone letture e sulla spinta di pensatori eretici. Distante anni luce dai falsi miti risorgimentali che qui sono stati impiantati per decenni nella testa delle passate e presenti generazioni, questi giovani militanti della difesa dei beni comuni si tengono lontani anche da romantiche tentazioni neoborboniche. Dai propri coetanei non hanno assimilato i tre mali peggiori di Calabria: la servitù nei confronti dei partiti politici, il disprezzo verso la propria terra, la mancanza di memoria. Sergio e quelli che come lui conoscono bene questa regione, la amano, e in nome di questo amore sarebbero disposti a sfidare qualsiasi mammasantissima.
A metà del decennio scorso, gli attivisti “Briganti” furono tra i primi a scatenare un aspro conflitto con Sorical quando la società mise in opera la diga dell’Alaco. Lo hanno denunciato pubblicamente, in mille modi: i fondali del lago non sarebbero mai stati bonificati dalla presenza di sostanze inquinanti. Assurdo e pericoloso, dunque, rifornire con quell’acqua decine di migliaia di famiglie. E per dimostrare l’attualità del problema, nonché l’inconsistenza delle iniziative assunte da certe istituzioni per risolverlo, negli ultimi mesi Gambino e compagni hanno continuato a monitorare l’Alaco, prelevando campioni d’acqua che sono serviti a produrre una controinchiesta dal basso. A qualcuno forse deve aver dato fastidio la vista di quei giovani che andavano e venivano dal lago per svolgere analisi in proprio. E puntuale è partito l’avvertimento malavitoso. Però chi voleva impaurire Sergio, ha ottenuto l’effetto contrario. Le reti regionali, le associazioni ambientaliste, il Coordinamento delle Serre per il diritto all’acqua, si sono subito stretti intorno a lui. È un movimento che a Crotone, nella manifestazione per la fine del commissariamento all’emergenza rifiuti, due settimane fa è riuscito a convocare oltre duemila persone. E non è detto che questo non possa avvenire anche a Serra San Bruno. A volte le pallottole giungono a destinazione. Ma poi tornano indietro.
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