41bis, i boss mafiosi come gli shahid

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Ha poche speranze di scuotere le coscienze la pubblicazione del rapporto sul 41bis, la tortura alla quale nelle carceri italiane sono sottoposti i sospettati di associazione terroristica e mafiosa. Il rapporto è stato redatto dalla Commissione parlamentare straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, presieduta dal senatore Luigi Manconi.
Pochi sanno che nei territori amministrati dalla ‘ndrangheta il 41bis esercita l’identica funzione del giubbotto esplosivo impiegato dai fondamentalisti islamici. Rappresenta un punto di non ritorno, un atto di consacrazione. I boss sottoposti a tortura nelle carceri, diventano martiri e insieme ai loro familiari assumono la stessa autorevolezza degli shahid. I capi delle ‘ndrine sono considerati dalle rispettive comunità di appartenenza come degli autentici kamikaze: sacrificano la propria esistenza, resistono ad anni di tortura nelle celle mantenendo il silenzio. In cambio, i clan assicurano protezione e mezzi di sussistenza a mogli, figli e parenti stretti. Ecco perché il 41bis è stato ideato per mantenere una condizione di guerra da cui gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di uscire vincitori. Ed è proprio questa situazione di conflitto permanente a garantire la stabilità sociale in diverse aree del Mezzogiorno. Giustifica la militarizzazione dei territori, alimenta rassegnazione in chi ci vive.
Non ho ancora letto tutto il rapporto, ma mi chiedo se faccia menzione della pratica molto diffusa di entrare nelle celle dei detenuti del 41bis nottetempo per tormentarli con “proposte” di collaborazione. Pare siano tanti i Pubblici Ministeri impegnati a esercitare questo tipo di pressioni. Un altro capitolo da approfondire, che mi pare sia in parte trattato nel rapporto, è quello relativo agli effetti sulla salute psichica e fisica dei figli delle persone sottoposte a tale forma di detenzione. Si tratta spesso di bambini che sviluppano patologie psichiatriche. E non possono neanche manifestarle apertamente, perché nelle procure calabresi ci sono uffici preposti a strappare i figli dei mafiosi dalle braccia delle rispettive madri. Qualora individuino presunti comportamenti devianti o “filomafiosi” nelle loro giovanissime personalità, li sottraggono ai nuclei familiari di appartenenza, affidandoli a strutture d’accoglienza nel nord Italia.
La domanda da rivolgere ai sostenitori della linea dura (i mafiologi oltranzisti e i sabaudo-interventisti, quelli che se ti appelli ai principi di umanità, ti danno del “buonista”), è sempre la stessa: a chi giova tutto ciò? In oltre due decenni di applicazione, questa tortura è servita a debellare la mafia? Per ogni boss che si è pentito sotto la minaccia di segregazione in 41bis, quanti altri hanno rafforzato il proprio potere all’esterno delle carceri?
Se il 41bis doveva servire a rompere la catena di comando tra l’interno e l’esterno, alla luce della persistente pervasività del fenomeno mafioso, è evidente che questo strumento ha fallito! O no?
Claudio Dionesalvi

 

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