
Prima poeta, poi cantautore. Dario Brunori vive quel che canta. Il ritmo della sua esistenza batte il tempo “bruzio” – come lo avrebbe definito l’astrofisico ribelle Franco Piperno – cioè l’armonica lentezza dei luoghi meridiani. Già da prima del festival di Sanremo, i suoi testi carezzavano le sensibilità di generazioni diverse. Con “L’albero delle noci” è riuscito a commuovere, indurre a riflettere, intenerire bambini, genitori, zii e nonni. Soprattutto ha compiuto il prodigio di unire le donne e gli uomini di Calabria, spesso purtroppo divisi da campanilismi e geografie distanti.
Dario non ha perso la dolcezza, i modi da gentiluomo e l’attitudine all’ironia. Ed è felice di rispondere alle domande del manifesto.
– La Calabria, “terra crudele dove la neve si mescola al miele”, come hai cantato a Sanremo, è da diversi lustri snodo cruciale delle rotte migratorie, terra di sbarchi e di tragedie del mare. Tu hai spesso manifestato solidarietà ai migranti e sostegno ai modelli di convivenza multietnica che nella Locride (ma non solo) si sono realizzati nella regione. Due anni fa, una delle più gravi stragi del mare avvenne sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Tutto il mondo allora parlò della Calabria. A distanza di tanto tempo ancora non è stata fatta luce sulle responsabilità. Che idea ti sei fatto e che ricordi hai di quei giorni?
“Amarezza e disincanto, questo mi porto dentro, ripensando a quei giorni, e non è da me. Da tempo però sono abbastanza disilluso sulla possibilità che su fatti di questo tipo si possa far luce in tempi brevi. Spesso le cose vengono fuori dopo anni, ancor più spesso non vengono fuori mai. Certo si tratta di un evento emblematico, che mi ha toccato profondamente non solo per la vicinanza geografica, ma perché la vedo come una sorta di sintesi di tutta la ormai trentennale querelle sui migranti. Da un lato un’umanità operosa che si sforza di non perdere di vista la centralità dell’essere umano e che, consapevole delle ragioni storiche ed economiche dei flussi migratori, si sforza di ipotizzare soluzioni che possano essere efficaci a lungo termine (oltre che a salvare concretamente delle vite, non ce lo dimentichiamo). Dall’altra parte una fetta di società incazzata, rancorosa, che vive oggettivamente una condizione di disagio e che invece di chiederne conto a chi detiene il potere, si accanisce sul bersaglio più facile, il capro espiatorio per antonomasia: lo straniero. Gente che s’infiamma al soffio di populismi un tanto al chilo, che preferisce guardare dall’altra parte, mettere la polvere sotto il tappeto, avallando soluzioni sbrigative a problematiche complesse. Pensano di fermare un’emorragia con un cerotto. Buona fortuna”.
–
– Hai affidato la regia del video della canzone “L’albero delle noci” ad un altro prodigioso giovane di Calabria, il regista Giacomo Triglia. Avete girato il video nella cooperativa sociale Arcadinoè a Carolei dove vai spesso. Sei pure attivista della Terra di Piero. In entrambe queste esperienze sociali le persone con disabilità sono protagoniste e responsabili, non soggetti passivi. Quanto tali esperienze possono contaminare il resto della società?
“Tanto, sopratutto se si supera la retorica del pietismo. Queste realtà dimostrano non solo che l’inclusione è un dovere di ogni società civile, ma che è sopratutto un valore, un arricchimento, come d’altronde tutto ciò che promuove una visione pluralistica del mondo. Per molto tempo, sopratutto nei nostri contesti, la disabilità è stata una sorta di tabù, di vergogna sociale, anche in seno alla famiglie stesse, cosa che portava a vivere una determinata condizione con una doppia croce sulle spalle. Alle difficoltà pratiche, alla sofferenza ed ai disagi quotidiani, si sommava lo stigma sociale. Realtà come quelle di Sergio e di Alessandro contribuiscono quotidianamente all’abbattimento della barriera più resistente che, come sempre, è quella culturale”.
–
– Soffrono e muoiono i bambini di Gaza ed Ucraina. Quanto hanno inciso queste immani tragedie sul “tedio che assale” papà Dario nell’universale testo dedicato alla sua bambina?
“Sicuramente sulla tentazione di chiudere mia figlia in una sorta di campana di vetro. Quello che canto nel ritornello del brano è proprio l’attrito fra quella parte di me che vorrebbe “proteggerla da tutte la malattie” del mondo e la parte di me che invece è consapevole del fatto che, mai come oggi, bisogna occuparsi delle cose del mondo e, con fatica, uscire dal calduccio di casa, perché questo calduccio non durerà. Non possiamo pensare che quello che accade a pochi chilometri da noi non ci riguardi o non ci riguarderà a breve. Come genitore sento forte questa responsabilità e farò di tutto perché Fiammetta cresca con questa consapevolezza, ma se possibile senza ansia: più che preoccuparsi, tocca occuparsi del futuro, questo mi piacerebbe condividere con lei”.
–
– Proprio mentre salivi sul palco a Sanremo, il vescovo di Cosenza Giovanni Checchinato nell’omelia esortava le popolazioni calabresi a combattere ingiustizia sociale, paura e rassegnazione. Nel brano sanremese canti anche una Calabria dove “le persone buone portano in testa corone di spine”. A chi ti riferisci nel testo?
“A tutte le persone di buona volontà, visto che ormai siamo in tema, e ce ne sono tante in Calabria, voi lo sapete. Un’umanità silente, spesso non rappresentata, relegata ai margini, mortificata da decenni di malaffare, giochini di potere, violenza e prepotenze varie. “Curnuta e mazziata”, per dirla alla nostra maniera. Penso sia arrivato il momento di parlarne, senza fare l’apologia calabra, per carità, ma cercando di comunicare fuori dai nostri contesti, che la Calabria è anche altro, che la faccenda è più articolata di questa “reductio ad ‘Ndujam”, o “ad ‘Ndranghetam” (perdonatemi il latinismo maccheronico)”.
–
– Il mondo agricolo calabrese si regge su migliaia di preziosi raccoglitori migranti che fluttuano nelle nostre piane come nelle altre aree agricole di Lucania, Campania, Sicilia e Puglia. Sfruttamento disumano, degrado abitativo e totale assenza di servizi provocano doloranti piaghe che poi trovano sfogo in rivolte come quella di Rosarno, di 15 anni orsono. Tu che hai una azienda agricola e produci vino, cosa ti senti di dire a questi braccianti?
“Nel nostro piccolo cerchiamo di dare il buon esempio, anche a chi ci sta intorno. Abbiamo due dipendenti africani, Modou (del Gambia) e Djoubeiro (senegalese), che ormai sono pezzi di cuore e facciamo il possibile affinché possano avere anche una vita al di fuori dei campi, frequentare scuole serali, prendere la patente. Cose così, normali, che li facciano sentire parte del mondo che abitano, cosa non facile per ragioni che puoi immaginare, sopratutto nei contesti di paese, dove alcune dinamiche sono ancora dure a morire. Sento già i commenti di chi dice: “Facile per te”, “Roba da radical chic”, ma se non partiamo da questo e dal sostegno a chi da sempre si occupa di mediazione culturale ed accoglienza, non credo che si possa fare molto altro nel quotidiano. Sono problematiche che hanno a che fare con le storture del mercato, lo sappiamo tutti. In questi anni ho parlato anche con gli imprenditori agricoli dei paraggi, e anche loro sono messi abbastanza maluccio, costretti spesso a lavorare con i grossi players della distribuzione con margini di guadagno esigui. Cosa che poi si riserva a cascata, via via, fino agli anelli più deboli della catena”.
–
– La spiaggia di “Guardia ‘82” non c’è più, divorata dall’erosione costiera. Sul mondo che ispirò il primo Brunori è calato il sipario. In giro però si vende il gusto di gelato “albero delle noci” e per il tuo ritorno ad Arcavacata sono state asfaltate le strade. Succede solo quando arriva il papa o il presidente della Repubblica. Poesia e musica potrebbero aiutare il meridione a sollevarsi?
“Da noi asfaltavano spesso anche per il “Giro d’Italia”… sono cose che fanno sorridere, perché sono emblematiche di come dalle nostre parti spesso serva il grande evento perché accada ciò che dovrebbe essere norma. Qualcuno dice che in Calabria si preferisce l’inaugurazione alla manutenzione. Ora non so se la poesia e la musica possano essere strumentali ad un cambiamento radicale, credo che possano fare la loro parte promuovendo il Bello e creando le condizioni emozionali per avere un modello a cui tendere. Questo assieme al lavoro della “gente di buona volontà” di cui parlavamo poc’anzi. Abbiamo un tessuto vivissimo di associazioni (e non solo associazioni) che da anni lavorano per il Bello, per il Bene mi viene da dire. A proposito della costa ad esempio, sono anni che sono testimonial di “Mare Pulito”, un’associazione che non ha altro fine se non quello di monitorare e tenere alta l’attenzione sulle condizioni del tirrenico cosentino. Sono piccoli puntini luminosi che messi insieme possono fare molto, ne sono convinto. Magari sono un ingenuo idealista, ma una vita senza ideali che vita è?”
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
Leave a Reply