
«Fermi tutti. Quella è droga!». Dinanzi ai mitra puntati, con le mani alzate, uno degli operai è riuscito a mormorare: «Mi scusi, ma guardi che veramente quello è formaggio».
È successo pochi mesi fa in un rinomato caseificio sui monti della Sila, in provincia di Cosenza. Insieme a mozzarelle e caciocavalli, l’azienda produceva uno squisito ovicaprino affinato alla canapa di cui si riforniva acquistandola dalle aziende del territorio. I finanzieri hanno sequestrato tutto e segnalato i fermati all’autorità giudiziaria. Dalle analisi nei laboratori scientifici poi è risultato che si trattava di cannabis light. Il formaggio sequestrato è stato restituito, ma ormai era da buttare.
La crociata delle destre contro l’erba proibita non si è mai fermata. Ed è iniziata ben prima che il governo, col decreto sicurezza approvato il 4 aprile scorso, vietasse la produzione ed il commercio delle infiorescenze della cosiddetta “marijuana da tabacchino”, contenente quantitativi di principio attivo, Thc, quasi nulli.
Anche a Roberto Panza, dipendente dell’azienda Jure Farm di San Giovanni in Fiore, di recente è successa una disavventura analoga. «Avevo appena finito di lavorare nella piantagione – racconta il giovane neolaureato con 110 e lode in Scienze per la cooperazione e lo sviluppo – e stavo tornando a casa quando mi hanno fermato i carabinieri. Avevo i vestiti che profumavano di canapa. I militari se ne sono accorti e volevano portarmi in caserma. Ho precisato che il mio odore era dovuto al lavoro che svolgo. Quando ho mostrato una confezione di cannabis light per chiarire che era regolarmente in commercio, mi hanno sequestrato la patente». C’è voluto poi il ricorso in prefettura per riottenerla. «Grazie a Jure Farm – conclude Roberto – avrei l’opportunità di lavorare in Calabria, con un regolare contratto. Questa regione è svuotata dall’emigrazione giovanile; tanti miei coetanei sono costretti a emigrare per assenza di degne condizioni lavorative. Per il governo la Calabria deve restare un centro di estrazione della forza lavoro sfruttata. Adesso mi preparo alla disoccupazione, perché alla notizia dell’approvazione in consiglio dei ministri delle misure liberticide, Jure Farm ha dovuto bloccare le attività».
Come tante altre imprese, l’azienda non si arrende e sta preparando ricorsi. «L’articolo 18 del decreto va contro le direttive europee. Abbiamo l’appoggio di Coldiretti, Cia, Copagri, Cna agroalimentare e Confagricoltura, insieme ad associazioni del resto d’Europa come Eiha. Per il momento non stiamo lavorando. Speriamo di potere riprendere presto», auspica Mattia Cusani, socio dell’azienda e presidente dell’associazione Canapa sativa Italia, membro al tavolo tecnico della canapa istituito presso il Masaf nazionale. Cusani è stato audito anche alla Camera e ha tenuto un corso per agenti di polizia sulla cannabis light. «Ultimamente – prosegue – stavamo lavorando all’ingrosso, ma in questo momento nessuno è disposto a vendere e comprare canapa». C’è infatti il rischio che venga sequestrata, perché con la nuova normativa è giudicata illegale. Dunque i coltivatori sono considerati spacciatori e trafficanti a tutti gli effetti. Nel provvedimento il governo non ha previsto neanche tempi di smaltimento del prodotto già confezionato. Così, da un giorno all’altro, bisogna distruggerlo.
«La nostra azienda esiste dal marzo 2018. Sette anni di investimenti e sacrifici. Siamo dieci soci – spiega Mattia Cusani – Abbiamo aperto un negozio in Repubblica Ceca e riforniamo delle farmacie in Svizzera. Per noi lavorano 25 dipendenti. Esportiamo nel resto d’Italia, ma anche in Slovenia, Francia, Portogallo, Olanda, Polonia, Belgio, Lussemburgo, Lituania, Estonia e persino in Australia. La canapa che produciamo è destinata ad uso cosmetico, alimentare e farmaceutico. Questo mercato in Italia ha un fatturato da due miliardi di due euro e ha creato 23mila posti di lavoro. In sette anni abbiamo prodotto 20mila chilogrammi di canapa. Abbiamo fiducia nell’Unione europea. Ci aspettiamo un provvedimento che ripristini il buon senso e una misura di civiltà per dei giovani che hanno voluto credere nella propria terra».
Claudio Dionesalvi
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