Una morte scomoda

È atteso per questa settimana il deposito dell’autopsia effettuata sul corpo del cosentino Massimo Esposito, deceduto il 30 novembre ’97 nel carcere di Lecce. Sarà poi il Pubblico Ministero Maria Cristina Rizzo ad accertare eventuali responsabilità da parte della direzione della casa circondariale. Il perito incaricato dalla famiglia è il dottor Franco Faggiano.
Massimo Esposito, 23 anni, detenuto perché accusato di rapina, è morto in circostanze misteriose nella cella in cui era recluso da qualche settimana. La sua scomparsa aveva sollevato dubbi e sospetti. Le lenzuola macchiate di sangue, che avvolgevano Massimo prima di morire, hanno messo in allarme i familiari e gli amici del ragazzo. Da quel tragico novembre, la famiglia Esposito vive immersa in un terribile sospetto. In città e all’ultimo lotto di via Popilia, dove è nato  e cresciuto, serpeggia la convinzione che Massimo sia stato ucciso durante un pestaggio. Un’ipotesi crudele, che avvolge la vicenda di un velo di mistero. «E il mistero – dicono i familiari del ragazzo – sarà risolto solo quando i periti si decideranno a pubblicare i risultati dell’autopsia. Ci avevano garantito che lo avrebbero fatto in gennaio. Invece, sono passati sei mesi e ancora stiamo aspettando». Sulla morte di Massimo stanno vigilando i legali nominati dalla famiglia. Anche il sindaco Mancini era intervenuto pubblicamente, chiedendo giustizia e incaricando l’avvocato Sorrentino di assistere gli Esposito. A Lecce il caso viene seguito dall’avvocato Alessandra Viterbo. Era stata proprio la dottoressa Viterbo a denunciare il pessimo trattamento riservato a Massimo. L’avvocato escludeva la possibilità che il ragazzo avesse subito botte o percosse, ma ricordava le circostanze dell’interrogatorio. Il giovane cosentino era denutrito e quasi certamente un’oscura malattia lo stava divorando. Secondo indiscrezioni, si sarebbe trattato di un’epatite all’ultimo stadio. L’ipotesi viene comunque smentita dai familiari: «Era uno sportivo, non beveva e non fumava».
Prima di essere sentito dal giudice, Massimo aveva rifiutato il cibo, perché era intenzionato a proclamare lo sciopero della fame. Ma nessuna anomalia era stata registrata dai medici del carcere di Lecce, che lo avevano visitato qualche giorno prima di morire, al suo ingresso nella casa circondariale salentina. In due diverse lettere scritte alla madre, Massimo parlava del clima di ostilità nei suoi confronti e sperava di essere trasferito a Cosenza.
Se l’esito dell’autopsia confermerà che è stato stroncato da una malattia, cadranno i sospetti più pesanti, ma la verità sarà altrettanto cruda. Il ragazzo si poteva salvare, ma nessuno ha risposto alle sue richieste di aiuto. Poteva cioè essere sottoposto alle cure necessarie per arrestare la malattia.
«In questi casi – dicono gli amici di Massimo – la giustizia non ha occhi e orecchie. Ma te lo immagini un magistrato che incrimina il direttore di un carcere per omissione di soccorso o addirittura per omicidio colposo? Impossibile. E poi per loro quello era solo un numero, una matricola da iscrivere in un registro. Solo noi sappiamo chi era Massimo, ricordiamo le giornate passate insieme e conserviamo nella mente la sua lealtà». Le luci del giorno abbandonano via Popilia, in attesa che una nuova notte cali sulla memoria di uno dei suoi figli, scomparso in una nottata più scura, solo, nel carcere di Lecce.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 14 luglio 1998

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