Le curve nell’era delle corporazioni

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(opuscolo contro il razzismo distribuito dall’Uefa a Manchester in occasione della finale di Champions Juventus-Milan del 2003. Nella foto gli Ultrà Cosenza a Padova, stagione 1996-97)
Non c’è calcio senza razzismo. Al di là di facili scorciatoie retoriche, è la cruda verità. E in questo discorso, è fondamentale stabilire precise linee di demarcazione. Perché in tempi recenti un po’ tutti ci siamo concentrati su aspetti esteriori del fenomeno. Quando all’inizio degli anni novanta, dalle gradinate si levarono i primi “buu” all’indirizzo dei giocatori di colore, il fatto richiamò l’attenzione generale. Tra i primi stadi in cui questo “rito” si consumò, c’era Firenze. La stessa tifoseria viola, che può essere tacciata di tutto tranne che d’essere fascistoide, intonò coretti insidiosi, come, per esempio, “Chi non salta è marocchino”. Era il periodo in cui Firenze finì sulle cronache per i raid ai danni di immigrati, avvenuti nel centro cittadino. Pare che quelle spedizioni punitive fossero state commissionate da commercianti desiderosi di fare piazza pulita. All’origine, dunque, c’era sì un problema sociale, tuttavia non riconducibile a strumentalizzazioni politiche. Fu più o meno nello stesso periodo che le cronache “scoprirono” gli sfottò contro i meridionali.
Lo ricordo benissimo. Eravamo sulla nave che ci riportava a casa, dopo un Cagliari-Cosenza. “Ei ei, hanno sottotitolato i veronesi”, mi disse un compagno di viaggio. In effetti, in televisione stavano mandando le immagini di Verona-Napoli. Dalla curva scaligera si levò un perentorio: “Quanto puzzate, terroni quanto puzzate”. La redazione del Tg1 pensò di riscrivere la frase in fondo allo schermo, in modo che anche i meno abituati al gergo delle curve comprendessero il significato di quell’urlo di massa. La notizia fece scandalo. In poche settimane, lo slogan rimbalzò in tantissimi stadi. Si trattò di manifestazioni razziste? In un certo senso sì. Più che altro, il problema era destinato ad ingrandirsi col passare del tempo. Perché è ovvio che sia nelle grandi curve metropolitane in crisi di identità sia in quei gruppi apertamente schierati a destra o simpatizzanti della Lega, leaders consolidati o emergenti fecero di tutto per conficcare usanze xenofobe nella zucca dei più giovani. Ci riuscirono. Il messaggio attecchiva in una cultura predisposta a denigrare l’altro, ed a farlo approfittando della sua presunta appartenenza a questa o quella etnia, comunità territoriale o municipale. Da sempre, i “montanari” chiamano “pescatori” gli ultrà provenienti da città marittime, e viceversa. Il nord “polentone” ed “annebbiato” contro il sud “terrone” e “albanese”. È un repertorio interminabile ed inflazionato. Non è il caso di soffermarsi su questo genere di “discriminazioni”. Ciò che conta, oggi, è analizzare un’altra forma di razzismo, maggiormente sottile e di origine recente. Certamente più pericolosa delle precedenti. Il termine adatto: “corporativismo”. Con la blindatura degli stadi, avviata dalla Dc, proseguita dagli esecutivi “tecnici”, nuovamente teorizzata dal centrosinistra e potenziata dal governo di centrodestra, si verifica un fatto nuovo. Ogni domenica, e anche il sabato, diverse categorie umane, sociali e lavorative, si ritrovano l’una contro l’altra armate, schierate in trincea a difesa di una legalità arbitraria e violenta. Ferrovieri, addetti degli autogrill, agenti e militari delle numerose polizie italiane, si preparano settimanalmente a combattere la loro guerra contro gli ultrà. Una guerra che, a dispetto dei dati trionfalistici diffusi dal ministero dell’Interno, l’anno scorso si è svolta in maniera ben più cruenta rispetto al passato. Ciascuna corporazione incrocia le altre, ed impara ad odiarle. È un rancore sociale destinato a produrre alienazione e scontro. La “razza” delle divise, contro quella dei fans cantanti, contro la gente comune. Colori, linguaggi e costumi differiscono. Il problema, in effetti, è sempre esistito, ma oggi sta toccando punte altissime. Basta starci dentro una giornata per capirlo. I livelli di sopportazione hanno raggiunto l’apice. A ciascuno, gli altri cominciano veramente a fare schifo, anche da un punto di vista epidermico, di pelle. Sono talmente alte le barriere simboliche poste a dividere le corporazioni, che le conseguenze traboccano nel quotidiano, seminando rancori che ricordano le scene del film di Kassowitz. Il vero odio razziale, in fondo, è questo. Tutto il resto è una messinscena. Ed io stesso, nonostante i miei 31 anni ed una coscienza antifascista, di fronte a certi individui che mi osservano con l’odio negli occhi, comincio a sentirmi un pochino “razzista”. Troppe volte, vedendo la brutalità statale ed i suoi esecutori, mi chiedo: “Ma siamo davvero tutti figli di Adamo ed Eva?”
Claudio Dionesalvi
magazine F.A.R.E  2002

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