A Cosenza esami da zero in condotta

L’inchiesta è stata battezzata con un nome evocativo, quasi un contrappasso: “110 e lode”. I pubblici ministeri della procura di Cosenza hanno così potuto dare sfogo all’umorismo. Ma in queste ore non c’è spazio per l’ironia sulla scrivania del rettore dell’università della Calabria, Giovanni Latorre. Nei cieli di Arcavacata s’è spalancato un buco nero mediatico all’indomani dell’apertura del fascicolo giudiziario su un presunto gigantesco giro di lauree in parte conseguite dopo aver sostenuto esami fantasma. È un gorgo che rischia di risucchiare la credibilità e la storia dell’ateneo. In principio, indagati erano solo studenti, tutor e segretari. Secondo le accuse avrebbero falsificato statini e procedure di registrazione degli esami. A scoppio ritardato è “esplosa” la recente iscrizione nel registro degli indagati di un docente e dell’ex caporedattore della sede RAI di Cosenza, Pino Nano.
Secondo i titolari dell’inchiesta, a partire dalla metà del decennio scorso, sarebbero state confezionate centinaia di statini “taroccati” per attestare il superamento di esami in realtà mai sostenuti, falsificando le firme dei docenti. Tutto ciò sarebbe stato possibile aggirando il complesso sistema informatico interno dell’Unical. È evidente che si trattava di un sistema assai poco funzionale, se è vero che solo pochi giorni fa lo stesso rettore s’è dovuto recare nuovamente in procura per consegnare centinaia di statini “dimenticati” in qualche armadio della segreteria. L’ultima documentazione consegnata agli atti, potrebbe servire a sollevare da responsabilità molti degli studenti indagati. Perché le vere vittime in quello che fino al terzo grado di giudizio resterà un pasticcio burocratico-tecnologico, sono gli innocenti risucchiati nel vortice giustizialista, quelli che la laurea se la sono sudata, però a distanza di anni sono chiamati a dimostrarlo. E pare siano davvero in tanti. Prima li hanno convocati in procura e interrogati come criminali. Poi sbattuti in prima pagina, con tanto di nome e cognome. Pesanti i sospetti: forse hanno comprato gli esami? Oppure se li sono fatti regalare? Di certo, adesso possono soltanto aspettare che la giustizia segua il suo lungo corso. Vivranno i prossimi sei o sette anni della loro esistenza con l’incubo di vedersi revocato il titolo di studio. È questo l’amaro destino toccato a un’ottantina di laureati presso l’università della Calabria. Indagati, umiliati, sospettati! Tutto è nato da una denuncia presentata dal rettore Latorre sulla base della segnalazione di un docente che non ha riconosciuto la propria firma apposta su uno statino. Scava che scava, s’è scoperto che le firme false in effetti sarebbero tante.
Intanto l’università si divide tra innocentisti e colpevolisti. Qualcuno sostiene che segnalazioni di irregolarità si registrano da anni. Sul versante dei movimenti studenteschi, tutti esprimono cautela e critiche strutturali. Per Davide Merando del laboratorio politico Ateneo Controverso, “Siamo di in presenza della perfetta realizzazione delle contraddizioni innescate da chi ha concepito l’università seguendo logiche di mercato. Quando i saperi diventano un feticcio, ci si deve aspettare di tutto”.
Per Daniela Ielasi, direttrice di “Fatti al cubo”, periodico indipendente dell’Unical, tutto, o quasi, è destinato a sgonfiarsi: “Innocenti fino a prova contraria: ecco la nostra opinione sui 75 indagati dell’inchiesta “110 e lode” condotta dalla Procura di Cosenza nei confronti di tanti studenti e laureati dell’Unical. Garantisti senza se e senza ma, come dovrebbero essere Rettore, Preside, docenti e amministrativi che si professano ‘vicini’ agli studenti e invece li abbandonano in una vicenda così delicata. A noi – spiega Ielasi – sembra che il pm Tridico stia colpendo nel mucchio, tirando dentro questa mastodontica indagine anche quegli studenti che hanno conseguito la laurea con onestà e sacrificio. Alcuni hanno già raccontato al pm la loro verità, qualcuno la sta raccontando ai giornalisti, altri sfogano la propria rabbia sul web, molti sono spaventati, si affidano agli avvocati, si chiudono in silenzi amareggiati”. Se responsabilità ci sono, secondo Ielasi bisogna individuarle in alto: “La parte lesa in tutta questa vicenda sono proprio gli studenti, e lesi doppiamente: una volta quando in prossimità della laurea, all’atto della ricostruzione della carriera in segreteria, hanno scoperto che l’esame (spesso più di uno) che avevano regolarmente sostenuto non risultava caricato; invece di pensare alla discussione della tesi, hanno dovuto sbattersi per tutta l’università, rintracciare il professore e registrare nuovamente, qualcuno ha dovuto rifare l’esame perché intanto il professore era cambiato, oppure ha dovuto rinviare la laurea pagando altre tasse”. In sintesi: “L’università dovrebbe assumersi la responsabilità della propria disorganizzazione invece di costituirsi parte civile”.
Tuttavia, è difficile che qualcuno compia il dignitoso gesto di dimettersi. Da queste parti, non si usa farlo. Ed è assai improbabile che si riesca ad individuare qualche livello più alto. Nessuna delle recenti iniziative della procura contro la corruzione e il malaffare, ha colpito le locali gerarchie politiche. In ogni caso, bisognerà lavorare molto di fantasia per restituire all’università della Calabria l’immagine decorosa imbrattata dalle vicende degli ultimi mesi.  Sarà importante riconnettere questo luogo con la fiducia di chi lo sceglierà per formarsi. Ma guai a creare nuovi miraggi! Perché in fondo un “ponte sullo stretto”, in Calabria, alla fine è stato pure realizzato. È proprio il gigantesco ponte “Bucci” di Arcavacata, che unisce i diversi dipartimenti dell’Unical: immenso, costoso, inutile! Il campus che i padri di questa istituzione sognavano di costruire per consentire ai giovani calabresi di studiare, è rimasto un’idea priva di costrutto. Gli studenti provenienti dai quattro angoli della regione, si limitano a popolarlo negli orari di lezione. Nessun reale collegamento culturale e professionale è stato allacciato col restante territorio. I neolaureati escono da questa università spaesati né più né meno di tanti altri loro colleghi formatisi presso altri atenei. La differenza di fondo però è che in Calabria, forse più che altrove, si vive e lavora in una condizione di servitù della gleba, a prescindere dal titolo di studio che si inserisce nel proprio curriculum. Che di per sé sarebbe carta straccia. Figuriamoci quando lo si è ottenuto in un’università che finisce tutti i giorni in prima pagina per vicende che sembrano uscite da un film di serie B.
Claudio Dionesalvi
il manifesto, domenica 21 ottobre 2012

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