Intervista. Parla l’artista inglese, illustratore del graphic novel uscito a fine anni Ottanta e scritto da Alan Moore. Dal 21 al 23 settembre sarà a Cosenza, ospite del Festival del fumetto «Le strade del paesaggio».
Ormai manca poco al ventesimo anniversario dell’insurrezione: 9 novembre 1998. Per noi tutti è già passato il cupo futuro scritto da Alan Moore e disegnato da David Lloyd in V for Vendetta, fumetto ideato più di trenta anni fa, da cui è tratto l’omonimo film cult realizzato nel decennio scorso (era il 2005) da James McTeigue. O forse quella distopia è divenuta talmente reale e presente, che neanche ci accorgiamo d’esserci immersi dentro. Sarà uno dei temi di cui discutere con David Lloyd, dal prossimo 21 al 23 settembre ospite a Cosenza, insieme alle sue tavole e a tanti altri autori ed eventi, nella dodicesima edizione del Festival del Fumetto «Le strade del paesaggio», che si tiene all’interno del museo diretto dal fumettista Luca Scornaienchi.
Dopo aver lavorato negli anni settanta per le testate della Marvel Comics, Lloyd divenne coautore del vendicativo e anarchico personaggio camuffato con la maschera di Guy Fawkes, membro della congiura delle polveri che provò a far saltare in aria la Camera dei Lord a Londra nel 1605. Il fumettista ne ha ricavato il volto di V. In seguito la maschera è divenuta firma degli hacktivists di Anonymous e di movimenti come Occupy Wall Street.
Mr. Loyd, «V for vendetta» non era un semplice graphic novel, bensì una reale simbiosi, una sintesi tra romanzo e fumetto. È ancora attuale questa forma di linguaggio?
La definizione di graphic novel è stata applicata spesso a tantissime opere che in realtà non ne giustificherebbero il termine, se a questo ci si riferisce con la parola «semplice», ma il linguaggio di questo genere artistico letterario esprime una capacità narrativa talmente potente nel miscelare immagini e parole, che non invecchierà mai. Il suo impatto sul pubblico dei lettori, ovviamente, può diminuire, divenendo di per sé un luogo comune, smarrendone il valore iniziale, ma questo è un problema diverso. Riferirsi a esso come a una «sintesi reale» ne specifica la sostanza, mettendo in evidenza un prodotto genuino, e su questo sono d’accordo. Tale sintesi è il risultato di un collegamento tra parola ed immagine che si ripropone allo stesso modo nel cinema, con la comunicazione visiva e dialogica che supporta tutto il resto per ottenere il migliore risultato. La tecnica cinematografica, e la «falsa realtà» nell’arte che deriva dall’assenza delle linee di contorno, è un elemento importante nel racconto di V, e questo non è un caso che sempre si verifica nell’ambito del cosiddetto graphic novel. Credo che questa sia forse una delle chiavi nella percezione della solidità della forma di V for Vendetta.
Qual è il rapporto tra il suo stile personale nel disegno e le avanguardie della pittura del Novecento?
L’arte di V scaturisce dal nostro bisogno di esprimere uno stile ben distinguibile. Stavamo raccontando la storia di un futuro rigido e cupo, per cui era necessario uno stile artistico che lo fosse altrettanto. Lavorando nel fumetto un artista può applicare una gamma di stili appropriati ai differenti soggetti che illustra, se ne ha la voglia e la capacità, e a seconda dell’opportunità. Per quanto riguarda le influenze sul mio stile personale, vengono più da Turner e Rembrandt che da qualche pittore pioniere di tempi più recenti.
Oggi le nostre vite sono sorvegliate, profilate e spesso pilotate da algoritmi. Emozioni e sentimenti sono registrati e messi a profitto. Potremmo citare tanti casi. Per esempio Pinterest, l’archivio digitale capace di registrare tutte le immagini che viaggiano su Facebook e gli altri social network. Trenta anni fa, nella storia scritta da Alan Moore e da lei illustrata, c’era «Il Fato», un programma che teneva sotto controllo la vita di tutti e tutte. Quella di Moore fu una premonizione?
Anche all’epoca in cui creammo V for Vendetta la capacità di immagazzinare massicce quantità di immagini e suoni – per ragioni di controllo o per altri fini – era a disposizione di quanti potevano permettersi di sostenerne i costi, e noi ci limitammo ad enfatizzare/sviluppare le potenzialità di questa struttura, descrivendo le capacità del computer che gestiva il Fato. L’incredibile sviluppo tecnologico e l’enorme accesso a questo potenziale al quale assistiamo oggi non era concepibile allora per le nostre menti, perché quello che abbiamo immaginato era un mondo solo un po’ differente dal nostro, basato su un paesaggio più convincente e familiare.
L’Inghilterra di «V» somiglia all’Italia governata da Salvini e all’Ungheria di Orbán. Lei è d’accordo?
Non li conosco abbastanza per giudicarli, tuttavia sono entrambi dei populisti che indirizzano il malcontento delle masse che si sentono trascurate e impaurite perché in qualche modo sono state abbandonate, escluse dai piani del governo o ignorate da esso. Molte di queste persone sono anche alla disperata ricerca di qualcuno che le possa salvare e che parli direttamente a loro – cercano un leader forte. Nella nostra storia, la società che abbiamo immaginato era ispirata alla Germania degli anni trenta, dove emerse un leader carismatico che era anche un populista attento a fare appello ai desideri delle persone che versavano in situazioni di difficoltà. Un leader forte si affermò a causa della debolezza dei sistemi politici liberali, e questo dovrebbe essere un avvertimento per tutti, affinché dovunque si presti attenzione ai bisogni di tutte le persone, e non a quelle da cui si può trarre vantaggio, altrimenti…
Trenta anni fa la percezione dell’atto violento era diversa da quella odierna. L’incubo Isis riduce alla categoria di «terrorismo» tutte le manifestazioni di lotta sociale basate sull’uso della forza. Oggi sarebbe ancora un eroe il personaggio di «V for Vendetta»?
Non credo che tutte le manifestazioni di protesta e malcontento siano viste come forme di terrorismo, anche se in alcuni Paesi è conveniente etichettarle così per assecondare gli obiettivi dei rispettivi governi. L’11 settembre ha cambiato tutto e ciononostante dopo quell’evento il film V per vendetta è stato comunque realizzato e apprezzato da quanti riconoscevano la differenza tra un combattente per la libertà e un terrorista. Fino a quando saremo in grado di riconoscere questa differenza e di cogliere quando e perché l’azione violenta è giustificata da una causa in qualunque parte del mondo, potremo considerarci sani di mente. Francamente non so se oggi un editore accetterebbe ancora di pubblicare V, qualora lo avessimo creato di recente, ma fortunatamente è già in mezzo a noi.
Nel romanzo, il nemico di «V» era il capitalismo? Oggi i partiti dell’ultra-destra si accaniscono contro i migranti. Secondo lei come possiamo identificare ancora il nemico reale?
Il nemico di V era il fascismo – non il capitalismo. Il vero nemico nel mondo reale di oggi è l’autoreferenzialità dei governi, cioè la loro negligenza e disponibilità a concedere vantaggi soltanto a coloro da cui dipendono per prendere voti – e alle ragioni della finanza. Ma un altro nemico è sempre l’elettorato – tutto – perché quando si reca a votare, bada maggiormente ai propri interessi, e solo raramente si preoccupa dell’interesse generale.
Claudio Dionesalvi
Traduzione di Mariafrancesca D’Agostino.
Hanno collaborato Emilia Sposato e Lucia Cerchiara
il manifesto, 14 settembre 2018
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