Ecco Piperno, il prof. Robin Hood

Rintanato nel suo ufficio di Arcavacata. La pipa in bocca e una montagna di carte sulla scrivania. Di solito Franco Piperno non è cordiale con i giornalisti che si ostinano a fargli sempre le stesse domande e lui non ne può più di analizzare il caso “Moro” e raccontare una storia che è stata narrata milioni di volte. Se invece gli proponi una chiacchierata sul presente, sui nostri giorni, lui ti accoglie, ricarica la pipa e parte come un fiume in piena. Nell’immaginario delle anziane signore calabresi, Franco è un brigante romantico, una specie di Robin Hood. Per i centri sociali autogestiti del nord-est è un punto di riferimento teorico. Nella testa smemorata della maggior parte degli studenti di Arcavacata, Piperno è solo un professore di Fisica, che vive a due passi dal campus.
«Uno che ti butta fuori senza pensarci due volte, se all’esame vai ad improvvisare». E il “prof” – come lo chiamavano negli anni settanta – ripercorre volentieri la sua vicenda umana. «Sono nato a Pisa e sono andato a fare la tesi di laurea a Frascati, presso il Comitato nazionale energia nucleare (oggi Enea). Quindi ho fatto un ultimo periodo di militanza nella Figc romana».
Ti hanno espulso dal partito?
Sì, sono stato radiato per la mia critica all’Urss. In estate ero andato in Unione sovietica e mi ero reso conto degli aspetti liberticidi di quel regime. C’erano ritratti di Breznev ovunque. Eravamo lontani anni luce dalla partecipazione popolare. Prevaleva un consenso passivo e non era quello l’ideale per cui lottare.
Intanto era scoppiato il movimento studentesco.
«Nel ‘68 avevo una borsa di studio per il perfezionamento. A febbraio mi hanno arrestato per le occupazioni, ma sono uscito dopo cinque giorni. L’anno successivo ero tra i fondatori di Potere Operaio, nel ‘74 si è sciolto. Nel ‘75 insegnavo a Milano e ho chiesto di andare negli Stati Uniti, ma mi hanno negato il visto, perché avevo un processo in corso. Poi un collega mi ha proposto di tornare in Calabria. A Cosenza sono arrivato a Natale. Ho visto il polifunzionale, c’era le neve, le pecore e ho detto: Questo è un posto magnifico».
L’anno dopo: il patatrac, l’omicidio di Aldo Moro e un clima da guerra civile. Ma passiamo al ‘79: scoppia l’operazione “7 aprile” e sei stato costretto a scappare.
«Sì, stavo già a Roma. Quando vennero ad arrestarmi non mi presero, ma per puro caso».
Imprigionarono più di cento persone in tutta Italia, accusandole di “insurrezione”. E tu?
«Quando hanno arrestato Morucci, che era di Potere Operaio, è iniziato l’assurdo collegamento Brigate Rosse-Pot.Op. A quel punto ho capito che mi avrebbero accusato del sequestro Moro e di tutto quello che si potesse addebitare alla sinistra extraparlamentare e ho deciso di scappare in Francia».
Lì sei stato raggiunto da un mandato di cattura con 57 capi d’accusa?
«Sì, i francesi li hanno respinti tutti, ma ne hanno accolto solo uno, quello relativo al colloquio con Signorile, che mi legava al caso “Moro”. Sono stato estradato in Italia ed interrogato. Dopo quattro mesi mi hanno liberato ed assolto in istruttoria dall’accusa legata al sequestro Moro. Per tutti gli altri punti dicevano che non potevano procedere, solo perché la Francia non aveva dato l’autorizzazione. E questa era un’ipocrisia, perché sapevano che io ero agganciato alle altre accuse dal famoso colloquio con Signorile: liberato da quell’imputazione, era evidente la mia estraneità agli altri fatti. Nel marzo ‘80 sono stato messo di fronte ad un bivio: o torni in Francia o ti arrestano. Sono partito e dopo un po’ mi sono trasferito in Canada».
Facciamo un salto. Il tuo ritorno in Italia, nel 1987.
«In quell’anno mi hanno processato. In primo grado mi hanno assolto dalle accuse di omicidio, ma condannato a dieci anni per “associazione sovversiva”. In appello sono scesi a due anni. Due mesi fa sono stato riabilitato».
Hai scelto di vivere a sud. Le ricette che i politici propongono per risolvere i problemi di questa terra sono flessibilità del lavoro e sacrifici. Cosa ne pensi?
«Penso che sia un errore. Come è un errore quello di costruire il ponte sullo stretto. L’idea del lavoro è diventata una specie di ideologia. I giovani dicono sinceramente che lo vogliono. Accanto ai contratti d’area e alla costruzione di nuovi impianti, bisogna mettere in chiaro i costi sociali di queste iniziative».
Alludi ad impianti come quelli di Crotone e Porto Marghera?
«Sì, costano sulla salute e sull’equilibrio territoriale. Quei costi, che non vengono contabilizzati, pesano sugli abitanti della zona. Il sud deve essere protetto. Le nostre coste sono state relativamente salvate, grazie alla mancata industrializzazione. Proprio mentre i processi industriali sono in crisi, mi sembrerebbe paradossale che noi pagassimo con la distruzione del nostro paesaggio, che è un capitale».
Per i turisti?
«No, prima di tutto per coloro che ci abitano. E bada bene che non è il solito discorso sulle etnie, ma sui luoghi. I maggiori estimatori del sud provengono da altre terre. Il rapporto con i luoghi meridionali deve basarsi sulla memoria sociale dei nostri saperi. Per esempio la coltivazione, oppure l’artigianato».
Quali sono i settori di un possibile sviluppo alternativo?
 «Accanto alle forme tradizionali, dovremmo ampliare quello che in gergo viene definito “terzo settore”. Il termine è infelice. Mi riferisco a quella forma d’investimento che non è capitalistica ma rientra nel settore delle attività. Non bisogna confondere il lavoro con l’attività. Il lavoro, quello salariato, è solo una forma d’attività piuttosto datata. Invece l’attività è una cosa più generale, che include molteplici esperienze, come quelle degli artigiani o degli artisti».
E la tecnologia?
«Il lavoro ripetitivo può essere svolto dalle macchine. Questo determina una riorganizzazione nella gerarchie nel mondo del lavoro e una diminuzione dei posti di lavoro. Siamo di fronte ad una tendenza secolare e dobbiamo attrezzarci. Possiamo farlo, restituendo all’attività umana l’aspetto di un tempo, il suo essere unica. Ci sono servizi rivolti alla persona, che possono essere rivalutati. Tutte le forme di attività autonome, nel senso del cooperare insieme, possono risultare interessanti».
Cosa pensi delle nuove forme di povertà?
«Nell’occidente ricco di merci, le forme di sofferenza sono diverse da quelle delle società caratterizzate dalla penuria. I poveri di New York sono tutti obesi. La sofferenza non è minore, ma non è relativa al fatto che manchi il pane. È una mancanza di senso. Raddoppiando il reddito, non raddoppierebbe la felicità. Non credo di avere ricette, ma sarebbe saggio sperimentare innovazioni, variando da luogo a luogo».
Una forma nuova di federalismo?
«Sì, ma basato sui municipi e non sulle regioni, che sono calate dall’alto. Il cittadino ha un’unica occasione di essere autore di una legge ed è quella di vivere nel suo quartiere, nel suo comune. A Reggio, le strade sono sporche e le case pulitissime. La gente identifica lo spazio privato con lo spazio da proteggere e il pubblico non esiste più. Questo pubblico coincide con un’estraniazione dell’azione politica che è avvenuta quando le città del sud si sono nazionalizzate. Paradossalmente, sotto i Borboni, una città meridionale si governava più da sola che nella prima Repubblica, quando dipendeva tutto dagli schieramenti di Roma».
Sei appena tornato da Palermo, dove hai partecipato ad un convegno sulla mafia. Cosa hai sostenuto?
«Non serve l’esercito. È significativo che proprio l’ex Ministro della difesa Andò sia stato inquisito per fatti di mafia. Le leggi eccezionali rendono più feroci le organizzazioni. I giovani che diventano mafiosi, lo fanno perché hanno bisogno di essere qualcuno, di avere un ruolo e quindi la risposta deve essere anche culturale. Se si fa una lotta meno violenta alla delinquenza, la stessa delinquenza sarà meno violenta».
Ti diverti a puntare il dito verso le stelle e a commentarle insieme ai tuoi studenti…
«Perché il paesaggio celeste fa parte di un’esperienza conoscitiva, per accedere alla quale non c’è bisogno di investimenti. È un po’ come la differenza tra valore d’uso e valore di scambio».
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 28 giugno 1998

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