Il ricordo dell’invasione di Praga: «Eravamo ragazzini inconsapevoli, vivemmo due mesi chiusi nei tank»

La testimonianza. Kazimierz Kubica, polacco, oggi settantenne, uno dei soldati mandati ad invadere la Cecoslovacchia, ricorda il dramma di quelle settimane.  
«Ci dissero che sarebbe stata solo un’esercitazione. Da una caserma della Polonia meridionale partimmo di notte. Eravamo in quattro nel nostro carrarmato. Il viaggio fu breve, durò tre ore. Quando arrivammo al confine, dalla radio il comando ci ordinò di schiacciare la sbarra in ferro. I militari cechi fuggirono impauriti. Soltanto allora capimmo che stavamo invadendo la Cecoslovacchia».
Kazimierz Kubica, polacco, oggi settantenne, è figlio di Maria e Lucjan, due giovani che durante l’occupazione nazista della Polonia si conobbero in una fabbrica d’armi: «Mia madre fu impiegata con la forza. Aveva mani molto piccole che le permettevano di lavorare alla costruzione di bombe». Kazimierz arrivò in Italia nel 1992, dopo il decesso della prima moglie. Oggi vive in Calabria dove ha sposato Maria Carla Maiolo, un’insegnante e poetessa italiana. Lui ridipinge chiese, restaura opere sacre ed è artigiano dei presepi. Nell’agosto del 1968 era poco più di un ragazzino, aveva appena concluso il corso di addestramento delle reclute, quando insieme ai suoi commilitoni fu mandato a reprimere la rivolta di Praga. Il servizio militare durava due anni. Da poco divenuto maggiorenne, indossò la divisa: «Stavo ancora crescendo. Non avevo neanche terminato l’età dello sviluppo. Quando fui arruolato ero alto un metro e 52. Al congedo raggiunsi 1,74».
Nell’estate del ’68 la storia lo afferrò per trascinarlo a Praga dove le forze del Patto di Varsavia confluirono per soffocare la “primavera”. Entrarono da diverse parti, non solo dalla Polonia. «Ricordo che dal versante opposto al nostro, dalla Germania est, i carri armati penetrarono per un’ottantina di km – racconta Kazimierz -. A noi ordinarono di ridipingere il portellone del nostro tank con una croce bianca: serviva ad essere individuati come alleati dai cacciabombardieri sovietici in ricognizione. Raddoppiarono la fornitura di sigarette da 10 a 20 giornaliere. E bloccarono la corrispondenza con le famiglie». Il tank era un moderno Giaguar T54, a prova di mina. All’interno operavano in quattro: un addetto alle armi, una vedetta, un graduato che recepiva gli ordini degli ufficiali. Infine, il meccanico.
«Questo era il mio compito – spiega -. Rimanemmo dentro per due mesi. Persino quando dovevamo fare la cacca, uscivamo da una botola inferiore che ci permetteva di calarci giù e fare i bisogni rimanendo protetti dai cingoli». Ricordi drammatici e teneri si intrecciano nella memoria dell’ex militare. Furono soprattutto i Russi a liberare le strade a cannonate. Invece Polacchi e Cechi, lontano dagli sguardi dei superiori, spesso fraternizzarono. Durante il ripiegamento, in una località nei pressi del confine, vedendolo fare capolino dal portellone, una ragazza andò verso di lui e gli riempì il tank di fiori intrecciati, in segno di pace. Poi sia a lui che agli altri commilitoni fu offerto da mangiare. Si fidarono, scesero dal tank e cenarono tutti insieme, nell’umile casa contadina che li accolse.
Ma non mancarono atti di ostilità, anche lontano dalla capitale: balle di paglia incendiata, bottiglie molotov, che non potevano neanche scalfire il mezzo corazzato. I superiori gli raccomandarono di non lasciarsi ingannare da donne ceche che pare adescassero i soldati occupanti attirandoli in imboscate per ucciderli. Una notte, una macchina si avvicinò al check point presidiato dal suo tank: «Quella volta ero io di guardia. Loro erano in tre. Uno uscì e mi si avvicinò troppo. Gli ordini prevedevano che avrei dovuto scaricargli l’arma addosso. Ma non ci riuscii, rimasi gelato. Non ho mai usato un’arma contro una persona. Fu un mio commilitone a sparare una raffica di kalashnikov in aria. Lo straniero si bloccò. Arrivarono subito gli agenti del corpo speciale e lo portarono via insieme agli altri».
Un’altra volta assistette in prima persona alla fucilazione di un caporale polacco: «In pochi giorni di invasione, ci furono diverse vittime ceche – precisa Kazimierz – ma almeno per quanto mi risulta, in assenza di gesti ostili i comandi vietarono qualsiasi azione individuale a danno della popolazione. Questo militare aveva molestato sessualmente una donna e, alla reazione del marito, aveva ucciso entrambi. Ci chiesero di formare un semicerchio e lo fucilarono davanti a noi».
Al termine dell’operazione in Cecoslovacchia, «Casimiro» (come ha scelto di farsi chiamare in Italia) ha ottenuto il congedo. E negli anni successivi ha scelto di sposare la causa opposta, quella della lotta per la democrazia e la libertà, arrivando a pagare un prezzo molto alto. Ma è tale il senso di sgomento per quegli anni difficili, che preferisce non parlarne. Certi fantasmi non smettono di tormentare le coscienze nemmeno quando sembrano scomparsi per sempre.
Claudio Dionesalvi

il manifesto, 22 agosto 2018

 

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *