Disastro ambientale, le richieste dei PM: “sei anni al conte Marzotto”.

Luigi Pacchiano e Alberto Cunto avranno passato una notte di quiete, sabato scorso. Ne è valsa la pena, avranno pensato. Dopo anni ed anni di sacrifici e tribolazioni, a battere palmo a palmo la provincia cosentina, il basso Cilento, la Lucania, per cercare e convincere gli operai della Marlane a deporre in Procura, la requisitoria dell’accusa li ripaga di tanti sforzi. Il processo Marlane, in corso a Paola, punta dritto verso la conclusione. I pubblici ministeri, Maria Camodeca e Linda Gambassi, hanno indicato le richieste di condanna degli imputati che variano dai tre ai dieci anni. La pena più alta per il dirigente di fabbrica ed ex sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco, dieci anni. Per il patron della fabbrica, il Conte Pietro Marzotto, l’accusa ha richiesto la reclusione a sei anni.
Morire di lavoro
Pacchiano e Cunto, operai di questa fabbrica a due passi dalla spiaggia di Praia a mare, sul Tirreno cosentino, hanno visto giorno dopo giorno morire i loro colleghi, i loro amici, i loro vicini nella catena di lavoro. Il primo nella tintoria, il secondo nella filatura. Pacchiano, che si è ammalato di tumore all’intestino, secondo le perizie ha contratto questa patologia a causa dei materiali adoperati nella lavorazione. Per decenni in questa fabbrica, oggi chiusa e sigillata, frotte di lavoratori sono morti di lavoro. Per anni le vedove, le figlie, le mogli che cocciutamente hanno presenziato a tutte le udienze, subendo lo smacco di tanti rinvii, hanno visto i loro congiunti crepare con sofferenze atroci per i cancri alla prostata, alla vescica, all’intestino. Un’ecatombe. Per la pubblica accusa s’è trattato di una condanna a morte decretata da padroni senza scrupoli e dirigenti compiacenti. Cinquanta operai attualmente malati di cancro, altrettanti già deceduti per l’uso di coloranti azoici nella fase di produzione. E, ancora, altre vittime per l’amianto presente sui freni dei telai. Infine, tonnellate di rifiuti industriali mai smaltite, sarebbero state seppellite impunemente nell’area circostante, a poche decine di metri dal centro abitato e da uno dei tratti balneari più rinomati della costa tirrenica calabrese, di fronte alla meravigliosa isola di Dino. Negli ultimi anni si è formato un comitato che chiede a gran voce la bonifica dell’intera area e che segue molto da vicino l’evolversi dell’inchiesta durata un decennio, condotta dal procuratore Bruno Giordano, lo stesso che istruì l’indagine sulle “navi dei veleni” (poi avocata dall’antimafia) e che pochi giorni fa, prima della requisitoria dei PM, ha voluto ribadire che questo iter processuale è stato recuperato in un momento “in cui languiva”. All’inizio, il procedimento è stato caratterizzato da una catena di rinvii che sembravano destinati a comprometterne l’esito. Scongiurato dunque il rischio d’insabbiamento di un’inchiesta partita da molto lontano. Dalle riunioni carbonare che un gruppo di agguerriti ambientalisti tenevano a Scalea ogni lunedì all’inizio dei Novanta. Si incontravano per parlare di erosione costiera, speculazione edilizia, discariche. In uno di quei lunedì si presentarono Pacchiano e Cunto, operai della fabbrica, iscritti rispettivamente al Sì Cobas e allo Slai Cobas. Per raccontare il dramma di compagni colpiti dal tumore e caduti uno dopo l’altro. Tutto ebbe inizio da lì. Da quell’incontro tra lavoratori e attivisti. A cui si aggiunsero medici, giuristi, operatori dell’informazione, e, poi, le vedove, le famiglie, i malati. Nacque così una campagna di sensibilizzazione scandita da manifestazioni, convegni, pubblicazioni di libri e aspri conflitti con quanti negavano l’esistenza del problema. È noto infatti che ovunque il ricatto occupazionale spesso provoca omertà e silenzi. A guidare quella compagine di ambientalisti, riuniti sotto la sigla Rischiozero, era il mediattivista e scrittore Francesco Cirillo. Nel 2001, per presentare in pubblico i primi risultati della controinchiesta, la sua provocazione più forte: di fronte al diniego, da parte del comune di Praia, dell’utilizzo della sala in cui avrebbe voluto tenere una conferenza, Cirillo la organizzò all’interno del cimitero, insieme ai familiari degli operai. “I miei interlocutori, i diretti interessati, le vittime di questa strage, sono tutti qua dentro, tanto vale parlarne qui”, dichiarò Cirillo. Oggi è soddisfatto della requisitoria di un Pm “che ha dimostrato – spiega Cirillo – la conoscenza dell’intera vicenda in modo scientifico. Ci è piaciuto anche il comportamento tenuto dal presidente del tribunale, Domenico Introcaso. Non dobbiamo dimenticare – prosegue lo scrittore ambientalista – che questa inchiesta è nata sull’onda della manifestazione del 2009 sulle navi dei veleni, che ha fatto da stimolo per la procura di Paola e nello stesso tempo ha sollecitato l’attenzione generale sul problema della devastazione ambientale nella nostra regione. Ed è opportuno sottolineare la forte determinazione della controparte nel processo Marlane. L’azienda ha schierato un super pool di avvocati, tra i quali Ghedini”.
Una settimana fa, l’ennesimo colpo di scena: l’accusa ha depositato una registrazione che attesterebbe l’esistenza di un accordo sottobanco tra i testimoni della difesa. La presidenza ha acquisito il documento con riserva.
“Sono tanti piccoli ma importanti tasselli di un lavoro paziente, protrattosi nel tempo – precisa Cirillo -. Grazie alla costanza del comitato che per tutta la durata del processo ha portato di fronte al tribunale associazioni, movimenti e pure qualche partito, siamo arrivati al termine del procedimento. L’intera vicenda non ha avuto a livello nazionale la stessa attenzione che hanno ottenuto altri casi analoghi. Penso alla ThyssenKrupp dove il numero degli operai deceduti è decisamente inferiore alla vicenda di Praia. Alle vittime di quella strage ed ai loro familiari, naturalmente, tutta la nostra solidarietà. Anche un solo lavoratore morto in attività di servizio merita l’indignazione e la vicinanza di tutti. Ma il diverso livello di risonanza sul piano mediatico, dovrebbe comunque indurre a riflettere. Marzotto non è Thyssen. Gli è stato dedicato un francobollo commemorativo per la sua attività nel campo tessile ed è stato insignito del titolo di cavaliere del lavoro. Thyssen è tedesca. Marzotto italiano. Forse anche per questo motivo – conclude Cirillo -, nel momento in cui sono finiti sul banco degli imputati, hanno ottenuto diversi livelli di attenzione?”.
Dopo oltre venti anni siamo ormai a un passo dal traguardo: verità e giustizia per la fabbrica dei veleni. L’accusa ha ribadito, perizie alla mano, che un centinaio di operai dello stabilimento sono morti o ammalati per tumori provocati dall’inalazione dei vapori emessi nella lavorazione dei tessuti, in modo particolare nel reparto di tinteggiatura. Per l’ex sindaco di Praia, nonché responsabile del settore tintoria, Lomonaco, è stato chiesto il riconoscimento di responsabilità per i reati relativi all’omissione dolosa di cautele sul lavoro e disastro ambientale limitatamente alle malattie e agli infortuni di quindici operai. Per Marzotto, l’accusa ha chiesto che venga riconosciuto responsabile dei reati relativi al capo G, ovvero il disastro ambientale, e condannato alla pena di 6 anni di reclusione. E poi la pletora di dirigenti, colletti bianchi, quadri impiegatizi che non avrebbero mai ostacolato la morìa, per i quali la procura ha chiesto la condanna a un centinaio di anni complessivi. La sentenza dovrebbe arrivare a metà autunno.
Claudio Dionesalvi – Silvio Messinetti- Paola (CS)
il manifesto, martedì 23 settembre 2014

 

 

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