Syd Barrett, sulla scia di una cometa

COSENZA – Verbo ribelle o fuga lisergica? L’enigma Roger Keith Barrett piomba nel vortice del festival delle Invasioni. Del poeta e sciamano anglosassone che diede la scintilla vitale ai Pink Floyd si parlerà domani sera, alle 18,30, in Piazza Principe di Piemonte. Al richiamo del cerimoniere Mario Toscano hanno risposto gli specialisti Giancarlo Susanna, Giancarlo Mattia e il più grande conoscitore europeo dell’artista Syd Barrett: Luca Ferrari.
Ferrari, il suo ultimo incontro con Barrett risale alla metà degli anni ottanta. Successivamente, sono avvenuti altri contatti?
«No, benché abbia avuto altre occasioni e conosca da tempo l’indirizzo di casa sua, altri hanno continuato a farlo, con il risultato di arrecargli soltanto fastidi e irritazioni».
È ancora convinto che il suo abbandono della scena rock sia dovuto soprattutto ad una scelta politica?
«In realtà, scrivendo nel 1989 “Syd Barrett” (Edizioni Stampa Alternativa), ritenevo che il suo potesse essere considerato un “gesto” che, per quanto inconsapevole, racchiudesse in sé elementi di forte critica “politica” al sistema della sottocultura Rock e, più in generale, alla logica dello “star-system”. Che si sia trattato di una scelta deliberata, di pure casualità, di tragica necessità, ancora oggi non è acclarato: circolano varie tesi e interpretazioni, nessuna mi pare di poter dire definitiva».
Pare che non abbia mai smesso di comporre e dipingere. Cosa, e quanto, si conosce delle sue recenti attività artistiche?
“Delle più recenti attività si sono occupati alcuni siti internet (penso ai “Syd Barrett Archives” o a “Dolly Rocker”…), per quanto il materiale si riferisca alla prima metà degli anni ’90. Nel mio già citato “A Fish Out Of Water”, oltre ad alcune riproduzioni inedite degli inizi del decennio scorso, ho proposto un breve excursus critico sulla sua attività pittorica. Rosemary, comunque, che è la persona che ha frequentato abitualmente Barrett negli ultimi quindici anni, sostiene che la produzione recente non ha grande valore artistico. Soltanto alcune opere, prevalentemente ad acquerello, potrebbero essere eventualmente esposte in una personale. Barrett pare sia molto soddisfatto del suo lavoro, tanto che è solito fotografare personalmente particolari delle sue opere e repertoriarli in un raccoglitore ad anelli”.
Il testo barrettiano è singhiozzato, limpido, elementare. Si potrebbe dire quasi “pascoliano”.
Ma contiene una carica allusiva? È anch’esso alla ricerca di significati oppure le sembra privo di qualsiasi sostanza semantica?
“La questione di una lettura approfondita dei testi di Barrett non mi è mai parsa di poco conto, tanto che in pochi ci si sono cimentati seriamente. Nella sua esigua produzione, il testo limpido, elementare, immediato cui lei fa riferimento credo sia soprattutto riconducibile ai lavori coi Pink Floyd, profondamente legati all’epoca della “Swinging London” e del “Flower Power”, per quanto riproposto anche in seguito, nel periodo solista. Mi è sempre sembrato più attraente, perché magmatico, denso, allusivo, il tipo di lyrics alla “Dark Globe”, “If it’s in you”, “Feel”, “Dominoes”, dove è evidente il tentativo di scavare nel sé, anche con dolorosa impietosità. Per quanto residuale nel suo corpus espressivo, ritengo sia di estremo interesse anche il testo surreale, illogico, legato a un’idea di “scrittura automatica” o di “flusso di coscienza”, per l’idea stessa di espressione “free-form”, liberata dalle catene della razionalità”.
Quali difficoltà ha incontrato nel tradurne le poesie in italiano?
“Inizialmente la difficoltà maggiore è stata quella di verificare l’autenticità delle fonti. Interpellata l’agenzia di Bryan Morrison, pubblisher di Barrett, scoprii incredibilmente che non esistevano fonti a stampa dei testi e che l’unico modo di tradurli era quello di desumerli “a orecchio”. Fortunatamente, però, nel corso delle prime interviste a Londra incontrai uno dei redattori della fanzine “Terrapin” che me li trascrisse (avrei scoperto soltanto anni dopo che la trascrizione non era completamente aderente all’originale…). Per la traduzione mi affidai a un’amica inglese, limitandomi a curare sia la revisione che l’adattamento in italiano. A distanza di anni, pur essendo rimasta la raccolta più completa dei suoi testi, credo sia opportuno curarne una riedizione che aggiorni e integri il repertorio migliorandone la traduzione. Nelle scorse settimane ho ricevuto un’offerta da un piccolo editore e non è da escludere che decida di tornare a lavorarci”.
Di Barrett lei parlò spesso con i promotori della rivista letteraria Inonija, ed in particolare con il poeta cosentino Angelo Fasano, prematuramente scomparso. Fasano e Barrett avevano qualcosa in comune. Cosa ricorda di lui?
“Sono stato contattato dalla rivista poco prima dell’uscita della raccolta di testi e interviste edita nel 1990 per offrire un contributo sul rapporto arte e follia in Barrett. Rapporto che mi sembrò da subito fuorviante sia in quanto mancavano prove certe della sua presunta malattia mentale, sia in quanto  l’eventuale malattia non sembra aver avuto attinenza diretta con l’opera stessa ma, semmai, era stata proprio la malattia a sostituirsi all’opera. Dionesalvi e Fasano furono comunque molto gentili nel consentirmi di esprimere il mio punto di vista sul tema. Purtroppo, però, al di là di un paio di interventi, non ebbi modo di approfondire la conoscenza di entrambi. Avrei incontrato volentieri Angelo Fasano in questa occasione…”
A Cosenza lei parteciperà ad un convegno su Barrett. Ma non le sembra che forse il modo migliore per discutere su questa vicenda umana ed artistica sia guardarsi negli occhi e restare in religioso silenzio?
«La domanda è la stessa che vado periodicamente facendomi da almeno quindici anni, perché continuare a parlarne? Ogni volta mi convinco che probabilmente è un bene farlo, dipende dal come, perché  il destino critico di Barrett appartiene alle esperienze a mio avviso più emblematiche di come il sistema sottoculturale pop (e non solo) tende a trattare le sue “anomalie”, i suoi “virus”, gli strappi di senso. Se non ne fossi stato convinto, non avrei scritto, negli anni, anche di altri grandi musicisti “rock” non allineati, quali Tim Buckley, Captain Beefheart, Nick Drake, la stessa Third Ear Band”.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 21 luglio 2002

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