Questo palazzo non serve a un…

Per chi come me non c’era mai stato prima d’oggi, spontanea affiora la domanda: “A che serve questo palazzo”?
La cittadella regionale, nel capoluogo di Calabria, evoca (in brutto) il colonnato del Bernini. Però qui l’architettura non esprime l’abbraccio. Piuttosto, sembra che voglia avvilupparti, inglobarti, soffocarti nei suoi tentacoli.
Quante migliaia di calabresi sono entrati in questo edificio col cappello in mano? Alcuni di loro, pochi, nell’atto di elemosinare un lavoretto o il finanziamento di un “progettino”, nel portabagagli custodivano in standby il kalashnikov in uso agli ‘ndranghetisti. La vicenda Tallini, se un giorno dai tribunali uscirà condannato, è soltanto l’escrescenza di un tumore profondo. Le cliniche private, i villaggi turistici, i parchi eolici e le discariche autorizzate qui nel corso del tempo sono state consegnate nelle grinfie della calabra borghesia che è riduttivo definire “mafiosa”. Al mondo forse esiste borghesia che non sia predatoria, sfruttatrice, fondata sull’ipocrisia dell’apparenza e su malcelati vizi perversi? Non c’era bisogno che qualche parlamentare ci imponesse di guardarci allo specchio, che ci ricordasse quanto compromessi siamo con questa classe politica vomitevole. I grilli parlanti di oggi sono gli stessi politici che di questo sistema fanno parte, che il territorio nostro lo hanno vissuto dalle finestre di qualche salottino e che fingono di non conoscere le cause di tanto clientelismo, familismo e sottomissione. Facile sputare sentenze quando non si è conosciuta la miseria, qualora non si sappia cosa significhi essere privi dei più elementari diritti. Da qui nacquero i nostri mali, la nostra subordinazione. Non è auto-assolutorio, bensì una verità storica. Non ci sarebbero state mafia e familismo se non ci avessero colonizzato, costringendoci a emigrare e obbligandoci a subire le conseguenze dell’attecchimento del capitalismo in un contesto ostile, in una terra periferica che solo da bacino di forza lavoro poteva servire. Il comparaggio fu per i nostri nonni e bisnonni l’unica arma di sopravvivenza. In tanti casi, degenerò. Di certo tutto questo oggi appare anacronistico. Eppure non lo è, in una regione che ti priva delle strade, della salute, dell’accesso alle risorse pubbliche. La nostra subordinazione a questi quattro ignorantoni in giacca e cravatta, che si atteggiano a uomini colti in virtù dei voti racimolati approfittando della disperazione diffusa, serve a rimpinguare i giovani e vecchi lombrichi di una borghesia che definire solo “mafiosa” sarebbe un eufemismo. Non era necessario che qualcuno ci costringesse a specchiarci in questo edificio. Ne siamo tutti coscienti. Ma negli ultimi giorni lo specchio non basta più a rifletterci. In queste ultime settimane abbiamo conosciuto una Calabria che ha imparato a provvedere a se stessa, erogare dal basso i servizi che le istituzioni non garantiscono, distribuire cibo e medicinali a chi ne è sprovvisto. Molto più di semplici proteste e di banali proposte! È un movimento che in alcune aree della Calabria tende a non rinviare l’alternativa a una soluzione dall’alto che mai arriverà. E per la prima volta, dietro le finestre, ci sembra di veder tremare le sagome che da sempre abitano la cittadella regionale.
Claudio Dionesalvi

 

 

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