23 novembre 1980, Natura vendicativa

Mio padre afferrò il microfono, com’era solito fare ogni volta che i ragazzi scendevano dal pullman. Con tono amorevole e lessico fiscale, riepilogò i possibili luoghi da visitare, le bellezze nel centro storico da non perdere. Ordinò agli alunni di dividersi in gruppi, raccomandò a tutti di rispettare l’orario di rientro. Dando le spalle al parabrezza, in piedi, roteava lo sguardo per chiedere un cenno di consenso.
– Va bene, preside.
Rispose una professoressa bionda ricciuta, a voler sottolineare l’accorato appello. Viaggiavamo già sulla via del ritorno, dopo una visita guidata di due giorni in Campania. Quella era l’ultima tappa, prima del rientro a casa. Alunni e insegnanti scesero dal pullman e sparirono in pochi secondi disperdendosi per le vie circostanti il lungomare di Salerno. C’era pure zia Maria, sorella di mio padre, che lo accompagnava spesso in gita scolastica. Pronunciava il mio nome con inflessione bruzio-latina. Mi prese per mano:
Clavdio, stai vicino a me ché qui ti puoi perdere.
Vagammo per la città mangiucchiando cibo di strada. Prendemmo un cartoccio di pesce fritto. Alici, calamari e gamberi croccanti che parevano patatine, gustosissimi. Li vendeva all’angolo della strada un signore dalla faccia di calamaro, la testa allungata all’inverosimile, manco gliel’avessero risucchiata tutta con un potente aspirapolvere. Zia Maria fece quel che poté per convincermi a non mangiare quei pesci. Mi giunse in soccorso uno dei professori della scuola di papà:
– Signora, non si preoccupi. È roba cotta. Non gli può far male al pancino.
Continuammo a passeggiare, mia zia distribuendo baci votivi e atti di dolore al passaggio davanti a ogni chiesa, io brandivo il cartoccio, fiero del pasto grezzo che m’era stato concesso, papà camminava pochi metri avanti col naso sospeso in aria, fiutava beato la brezza marina. Presto ritrovammo il lungomare. Ci accoccolammo sul muretto di cinta. Stavo per terminare il pasto, quando fui scosso da un sussulto. La gente intorno a me si alzava di scatto, zia Maria balzò in piedi. Pensai che ci fosse un grosso cane in agguato. Invece lungo il semicerchio in mattoni che ci separava dal muretto prospiciente il mare, sgambettava un topolino fuoriuscito forse da un tombino fognario. Cercai di avvicinarmi, zia Maria mi trasse a sé. Il minuscolo roditore cercava una via di fuga, correva su e giù, sospinto dalle urla dribblava le goffe gambe di uomini dall’accento campano che s’immolavano nell’emiciclo per mettere in fuga la belva. Tra le grida delle figure femminili presenti, il topolino era ormai a un passo da una fessura che gli avrebbe aperto la libertà, quando la scarpa lucida di un panzone incamiciato gli schiacciò la testa sull’asfalto come uno scarafaggio. Rimasi inorridito a osservare sgomento quell’animaletto agonizzante. Perdeva sangue dalla bocca. Non avevo mai visto una siffatta creatura morente. Sino a quel momento, solo insetti. Avrei voluto soccorrerlo, accarezzarlo, vendicarlo sgonfiando con uno spillone da balia la traboccante pancia dell’assassino. Mio padre capì il mio stato d’animo:
– Claudio, andiamo via, s’è fatto tardi.
Tornammo al pullman, salimmo, papà chiamò l’appello. Quasi tutti erano rientrati alla spicciolata. Mancava però un gruppetto di alunni che se n’era andato in giro con un’insegnante, la stessa che prima aveva fatto eco alla richiesta di puntualità scandita da mio padre. Restammo in attesa a lungo. Incavolatissimo l’autista, pure papà era furioso. Dopo più di un’ora ritornarono alunni e professoressa. Papà andò al microfono, fu durissimo, rimproverò i ragazzi e se la prese soprattutto con la docente. Disse che il senso di responsabilità è uno dei tratti distintivi delle persone civili. La professoressa chiese scusa. Pare si fossero attardati nello shopping. Mortificata, si mise a piangere. Mia zia la guardava in cagnesco. Monarchica convinta, cresciuta in pieno fascismo, zia Maria perdonava cristianamente tutti, tranne le donne. Il pullman riprese muto la strada del ritorno. Era calato un silenzio di freddezza. In Basilicata ci fermammo a un distributore di benzina. L’autista doveva fare rifornimento per il viaggio del giorno successivo. Si fermò accostandosi alla pompa del carburante. Dal finestrino fece cenno al benzinaio ma quello rimaneva incollato alla sedia, lo sguardo fisso nel vuoto. Seguì una violenta suonata di clacson. Niente. Il benzinaio, isolato nella piazzola deserta, restava impietrito. L’autista si precipitò fuori dal pullman, gli sfiorò la testa col palmo della mano destra:
– Oh, tutto a posto?
Ancora nessun segno di vita. L’uomo, sulla cinquantina, aveva la bocca spalancata e ogni tanto rantolava.
– Forse ha visto un fantasma o i marziani.
Dissi a zia Maria che alle mie parole s’affrettò a impugnare la corona del rosario. Papà, un paio di insegnanti e diversi alunni scesero dal pullman, formarono un preoccupato capannello intorno al benzinaio. Uno di loro tornò verso di noi:
– Sembra sotto shock. Ripete sempre la stessa frase, ma la dice tra i denti e non si capisce bene. Mi pare che ha detto che… “tremava tutto”.
C’era una cabina telefonica e nient’altro, in quell’autogrill. Niente bar. Solo una pestilenziale toilette e un’appartata cabina telefonica. Alcuni ragazzi ne approfittarono per telefonare a casa. Tutti però tornavano al pullman e afflitti ripetevano la stessa cosa:
– Che strano, sto continuando a chiamare, ma non risponde nessuno.
Qualcuno suggerì di interpellare pure il più vicino ospedale per soccorrere il benzinaio. Digitarono il numero d’emergenza impresso sulla cabina. Neanche da lì risposero. Intanto s’era fatto buio. Non c’è cosa più inquietante di un telefono che chiama a vuoto in un tenebroso autogrill abitato da un benzinaio mummificato. Un fremito di panico cominciò ad attraversare l’intera comitiva. Mia zia emise un urletto pigolante:
– Signore aiutaci, siamo isolati.
Immediato lo sguardo ammonitore di mio padre la costrinse al silenzio. Lei rigida, con gli occhi sbarrati, tornò a palpare ogni singola perlina della corona del rosario. Intanto, falliti gli ultimi tentativi di ritrovare una voce umana all’altro capo del telefono, tutti stavano risalendo sul pullman. L’autista mise in moto e sgusciò fuori dall’autogrill imboccando l’autostrada a tutta velocità. Abbandonammo il benzinaio al suo destino, adagiato su quella sgangherata sedia in plastica.
Il viaggio durò ancora un paio d’ore nel corso delle quali nessuno seppe rispondere alla domanda: che cos’è successo? Ogni tanto l’autista smanettava sulla sgangherata radio in dotazione, senza però riuscire a beccare un notiziario. Solo canzoni napoletane e discomusic. Viaggiavamo in una dimensione spazio-temporale rarefatta. Non sapevamo se a casa avremmo ritrovato i nostri cari. Io sospettavo che li avessero rapiti gli alieni, però non potevo confidarlo a zia Maria che si sarebbe lanciata dal finestrino. Mantenemmo tutti un imbarazzato e funereo silenzio, rotto solo dal viavai dei ragazzi che pellegrinavano in testa al pullman invocando una parola di conforto, e dal sussurrante e ritmico:
– Ora pro nobis.
Scandito da zia Maria. Giungemmo a Cosenza quando ormai era notte. All’ingresso in città, lungo il rettilineo dell’autostrada, vedemmo colonne di auto ferme con la gente costipata dentro. Ci bloccò una macchina della polizia. Un poliziotto balzò sul pullman:
– Grazie a Dio siete vivi. Preside, abbiamo ricevuto decine di telefonate. I parenti dei ragazzi sono disperati. Ma non avete saputo niente? Voi eravate lì. Possibile che non vi siete accorti di nulla? S’è sentito forte pure qui. In Campania c’è stato un terremoto devastante. Ci sono migliaia di morti.
Decine di nostri parenti e amici circondarono il pullman. Abbracci commossi e svenimenti. Scesi di corsa e la prima che incontrai ai piedi delle scalette fu mia madre, che era rimasta a casa. Mentre piangendo mi abbracciava soffocante, ripensai al topolino schiacciato da una scarpa assassina, poche ore prima. Immaginai il lungomare di Salerno squarciato dal sisma e quel panzone risucchiato nelle viscere della terra. La natura aveva vendicato la morte violenta di una delle sue più piccole creature. Le era bastato scuotersi, brontolare, per provocare una carneficina.
Claudio Dionesalvi

tratto da

“Fino all’ultima cabina. Vivere senza telefonino” (Edizioni Erranti)

 

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