Il Pg chiede 10 anni e 5 mesi. Il quadro probatorio resta debole

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Si conclude oggi a Reggio Calabria il processo d’appello per Mimmo Lucano e gli altri soggetti condannati nel processo «Xenia». In primo grado a Locri ci sono state 17 condanne e 8 assoluzioni.
Alle 9 i giudici della seconda sezione della Corte daranno la parola alla difesa dell’ex sindaco di Riace per le arringhe. Dopo le eventuali repliche della pubblica accusa il collegio giudicante si chiuderà in camera di consiglio. Sentenza attesa in serata. Nel processo sono costituite parti civili il ministero dell’Interno e la Siae. Lucano è stato condannato in primo grado a 13 anni e 8 mesi di reclusione per illeciti sulla gestione dei progetti di accoglienza ai migranti nel piccolo borgo della Locride. Secondo i giudici locresi di piazza Fortugno «Lucano, da dominus indiscusso del sodalizio, ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica». Contro la sentenza hanno presentato appello gli avvocati di Lucano, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua. La procura generale ha però sposato interamente l’impianto della sentenza di primo grado. Ha confermato l’associazione a delinquere. Ha chiesto una pena leggermente inferiore, 10 anni e 5 mesi. Ma ha convalidato tutte le accuse e senza riuscire ad eliminare le debolezze del quadro probatorio. A partire dalla mancata dimostrazione dell’appropriazione a fini privati di soldi pubblici, di cui è accusato il principale imputato, definito capo di una «banda di criminali», ma rimasto un uomo povero. Nelle sue tasche, infatti, lo stesso giudice di prime cure riconosce che non è arrivato nulla dei soldi per i quali è accusato di associazione a delinquere, abuso di ufficio, peculato, truffa. Tutte accuse per le quali è stato necessario cercare un movente. Ovvero quello politico. Le “‘manovre truffaldine” sarebbero servite a raccogliere consensi in vista di una carriera politica, che poi non c’è stata.
Tutta l’esperienza di Riace diventa crimine, mosso da avidità personale. Con una «furbizia travestita da falsa innocenza», il sindaco di Riace avrebbe evitato di intestarsi beni, avrebbe lasciato in umili condizioni la sua casa per mascherare l’attività illecita perpetrata, senza peraltro che, in tanti anni e nonostante lo scambio continuo con gli uffici prefettizi, nessuno se ne accorgesse.
Una disamina drastica del modello Riace. Che non tiene conto della relazione prefettizia di un dirigente (Campolo) dell’area immigrazione della Prefettura in seguito ad una ispezione condotta nel 2017. Il funzionario aveva apprezzato le caratteristiche della accoglienza, la creazione dei laboratori, le strutture dedicate ad attività che coinvolgevano stranieri e autoctoni. Una relazione elogiativa per due anni “secretata” dallo stesso prefetto proprio mentre veniva fatta circolare quella negativa del colonnello Sportelli, che diventerà uno degli strumenti dell’accusa. Il verdetto di Locri non ne tiene conto, al pari di provvedimenti favorevoli a Lucano emessi da altre autorità giudiziarie. Il Tar della Calabria dando ragione al Comune aveva dichiarato illegittima la chiusura dello Sprar e il trasferimento dei migranti, con sentenza confermata nel 2020 dal Consiglio di Stato che aveva qualificato il modello Riace «encomiabile negli intenti e negli esiti del processo di integrazione». C’era stato anche un intervento della Cassazione che scagionava Lucano da comportamenti fraudolenti. C’era infine stata anche una sentenza del Riesame di Reggio, che aveva definito «inconsistente» il quadro giudiziario, evidenziata l’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dalla Procura di Locri e ribadita l’assenza di condotte penalmente rilevanti.
Nessuno di questi interventi è stato preso in considerazione. Oggi la sentenza di Appello. Vedremo se c’è un giudice a Reggio.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 20 settembre 2023

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