Lettera aperta a Persichetti

Caro Paolo,
ho deciso di scriverti per due o tre motivi. Sono attento lettore ed estimatore dei tuoi scritti. Ammiro e rispetto i compagni e le compagne che, come te, hanno pagato con la vita e la libertà il prezzo delle proprie scelte. La ripubblicazione su Insorgenze dell’articolo da te scritto dieci anni fa, all’indomani dell’operazione contro il sud ribelle che portò al mio arresto ed alla cattura di un’altra ventina di attivisti ed attiviste, forse mi offre la possibilità di scrivere la parola “fine” sotto una delle pagine più sofferte di quella bizzarra vicenda: le nostre scarcerazioni per presunta “abiura della violenza”. Mi riferisco in particolare alla conclusione del tuo testo: “(…) Stupisce, invece, che i nonviolenti non abbiano avuto in proposito nulla da obiettare. Sorprende tanta timidezza e tanto silenzio. Dobbiamo pensare che dietro vi sia soltanto il segno di una superficiale distrazione oppure che il magistrato di Cosenza tutto sommato abbia ragione?” In verità le cose non andarono proprio così. Sì, mi spinge a precisarlo una forma di orgoglio personale, ma soprattutto il rispetto nei confronti delle tante persone che scesero in piazza a sostenere la causa della nostra liberazione. Nel corso di quegli interrogatori né io né Gianfranco abiurammo un bel niente. Oggi sono le sentenze dei tribunali a confermarlo, qualora ce ne fosse ancora bisogno. Non mi sono mai riconosciuto nella categoria del “nonviolento”. Considero la violenza una circostanza che può verificarsi nella vita di una persona. Né la ripudio né l’esalto. Chiunque può trovarsi nella condizione di subirla o praticarla. Se nel carcere speciale di Viterbo rispondemmo alle domande del GIP, fu solo a causa della confusione che regnava in quelle ore. Alcuni degli arrestati rispondemmo, altri tacquero. Ci fu chi andò davanti al giudice ad urlare e chi, come me, scelse l’arma del sarcasmo. Oggi possiamo affermare che paradossalmente forse fu anche questo comportamento a confermare l’inesistenza di un’associazione. Se fossimo stati associati, il nostro atteggiamento in quella fase sarebbe stato meno disarticolato. Come ben sai, in questi casi i magistrati cercano, con mille espedienti, di “ricostruire il ruolo” del prigioniero, unendo alla tortura psicofisica della carcerazione preventiva, gli strumenti retorici della provocazione. All’inizio dell’interrogatorio, la giudice Plastina mi disse che io ero accusato di aver agito in sinergia con non meglio precisate “organizzazioni armate”, che io e gli altri arrestati avremmo pianificato e messo in atto la rivolta di Genova nei minimi dettagli, e mi accusò di essere stato uno dei responsabili della morte di Carlo Giuliani e del ferimento delle centinaia di persone finite all’ospedale durante gli scontri. Di fronte a quest’enormità, avvertii l’umano impulso di difendermi, prima ancora di affidare ai nostri legali il compito di farlo. Ma durante la “conversazione”, né io né la giudice dedicammo alcun cenno al tema della violenza. La questione fu sfiorata solo in merito ad uno dei capi d’accusa, relativo alla nostra occupazione temporanea della sede di Obiettivo Lavoro. Fui io a chiederle come fosse possibile, sul piano razionale, che per un banale sit-in si configurasse il reato di “turbativa violenta del possesso di beni immobili”. La GIP fece spallucce. Si vedeva che provava imbarazzo, sembrava una bambina sorpresa a rubare marmellata. Presi coraggio: le dissi che se avevo qualcosa da rimproverarmi, caso mai era l’atteggiamento troppo morbido che avevamo avuto nei confronti di Obiettivo Lavoro e dei poliziotti intervenuti sul posto durante la nostra manifestazione: … quella fu una pantomima. A momenti prendevamo il caffè insieme alla digos…. Il mio interrogatorio si concluse con le parole: “… Carlo Giuliani, vittima della violenza dello Stato”.
Allora qual era l’obiettivo della GIP che ci scarcerò con quella formuletta odiosa? Lo spieghi benissimo anche tu nel tuo articolo. È chiaro, era quello che da sempre perseguono gli apparati repressivi di questo Stato: prima ancora di “sorvegliare e punire”, vogliono DIVIDERE. Una cosa però è certa: ottennero l’effetto contrario. Con gli altri compagni e compagne arrestati quella notte, nonostante molti nemmeno ci conoscessimo, nei dieci anni successivi al blitz abbiamo assunto una posizione unitaria nelle aule “di giustizia”.
E senza timore d’essere smentito, né Gianfranco né io rimanemmo in silenzio nei giorni successivi alle nostre scarcerazioni. Scrivemmo e divulgammo subito un documento in cui attaccavamo la procura, chiarivamo il senso reale dei nostri interrogatori, chiedevamo l’immediata liberazione dei compagni e delle compagne ancora detenuti. Quel documento fu acquisito agli atti. E negli anni successivi, nella tormentata vicenda giudiziaria che ne seguì, la procura ha fatto di tutto per smentire il riferimento all’abiura, contenuto nel dispositivo emesso dalla GIP. So bene che per noi non ha alcun valore politico. Ma ai fini della ricostruzione storica dei fatti, il conseguente carteggio ne è indiscutibile testimonianza. È sufficiente prenderne visione. Le carte del Riesame, la chiusura indagini (415), la requisitoria del PM, dicono tutte la stessa cosa: Dionesalvi è un cattivo. A Tallarico invece chiediamo scusa, abbiamo sbagliato ad arrestarlo. Poi in questo psicodramma interverrà addirittura la sentenza della corte d’Assise: … Dionesalvi è un presuntuoso, parla come un fanatico. È un Ultrà del Cosenza Calcio.
Alla fine, dunque, quel che conta è che si sono avverate le previsioni del compianto compagno avvocato Peppino Mazzotta. Subito dopo la scarcerazione, venne ad abbracciarmi, e lesse nei miei occhi l’odio in luogo del sollievo. Capì il mio stato d’animo. Non auguro a nessuno, neanche al peggior nemico, quel che provai nelle ore successive alla mia liberazione. In questa vita, a parte le malattie incurabili, c’è soltanto un’esperienza più brutta del carcere: essere scarcerato per “abiura”, soprattutto quando tu non l’hai mai resa. Peppino mi disse: “Stai tranquillo. Non hai nulla da rimproverarti. Tutto si chiarirà. Alla fine saranno loro a fare abiura”. Così è stato. Quella GIP oggi non è più giudice. Lavora nel chiuso di un ufficio del ministero, sommersa da scartoffie. Buon per noi e per l’umanità intera. Quel capo della digos non è più né capo né digos. E il PM, alla fine della requisitoria con la quale chiedeva per noi tutti una sessantina di anni di galera, ha ammesso di essere “inadeguato”. Di certo, quel dispositivo basato sul concetto di abiura, nonostante ricalcasse una modalità di lavoro abituale per le galere e i tribunali italiani, apparve subito inverosimile agli occhi di chi, come te, conosce bene la storia di questo Paese. Il nostro sarebbe stato il primo caso, nella storia moderna e contemporanea, di “abiura” in assenza di ammissione di colpa e condanna. Non vorrei istituire paragoni blasfemi, ma in quest’ottica appare illuminante il processo a Galileo: venne prima la condanna, quindi la ritrattazione e l’abiura, infine la grazia. Noi invece, dopo dieci lunghi anni, siamo stati assolti. Auguro la medesima sorte a tutti gli altri compagni e compagne perseguitati per le lotte sociali e politiche. E spero di poterti avere nostro ospite a Cosenza, al più presto, da uomo libero, per abbracciarti di persona.
A pugno chiuso.
Claudio Dionesalvi
insorgenze.net  27 giugno 2012

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