Gli incubi luminosi del maestro Ferretti

Apocalittica, semplicemente apocalittica la seconda serata della festival “Invasioni”. Ne è passato di tempo da quando i Cccp esordirono allo Spectrum di Berlino. Nel 1983 Lindo Ferretti, filosofo dell’età contemporanea, e Massimo Zamboni, chitarrista eclettico, erano due punk. Vagavano in un’Europa diversa dai giorni nostri. Il muro di Berlino era ormai pericolante, ma i Cccp lo consideravano un oggetto sacro, una specie di totem da contrapporre, come tutta la civiltà che esso rappresentava, alla società occidentale. Nulla di politico nei loro messaggi. Al contrario: negazione di ogni ipotesi costruttiva. Una poetica in rivoluzione permanente, che sul finire degli anni ottanta li avrebbe portati a divenire Consorzio Suonatori Indipendenti. Martedì scorso a Cosenza, il loro illuminante nichilismo si è riproposto. Tremila giovani hanno invaso il parcheggio di piazza Matteotti. Ferretti è apparso alieno. Si è materializzato sul palco, assumendo le sembianze di un vecchio e saggio folletto, circondato dalle code di quei cavalli che tanto adora. Intorno al sacerdote del rock italiano, la voce melodica di Ginevra Di Marco, la chitarra floydiana di Zamboni, le disarmonie degli stacanovisti Giorgio Canali e Gianni Maroccolo. Nelle retrovie, offuscati dal gioco di luci, Francesco Magnelli e Gigi Cavalli Cocchi. L’inizio è elettrico. Sotto il palco le prime file stentano a ballare sulle note di un pezzo che impone una danza cerebrale: “Forma e sostanza”. Schitarrate, basso a martello e un ritornello forse insignificante per le nuove generazioni: “Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché mio, m’aspetta”. I Csi sviscerano una scaletta a zig zag tra gli ultimi lavori. In “Unità di produzione” affiora la sintesi del loro viaggio in Mongolia, madre dell’ultimo disco “Tabula rasa elettrificata”: i testi ispirati alla quiete delle ascetiche popolazioni di quelle lande remote si fondono con una ricerca musicale, che contempera elettronica e sonorità liturgiche medievali. “Cupe vampe”, tratto da “Linea Gotica”, spara sul pubblico la guerra in Bosnia. Ferretti canta l’inutilità delle confini imposti dagli stati nazionali. Così come “Vicini” proietta la tragedia delle frontiere. La chitarra di Zamboni percorre tonalità dimesse, mentre uno dopo l’altro, scorrono i pezzi dell’ultimo album: “Brace”, “Bolormaa”. Poi un salto indietro su “Ko de mondo”. La dolcezza di “Del mondo” è inno alla carne femminile. Ginevra sparisce dal palco per ricomparire su “Matrilineare” e “M’importa ‘na sega”, ispirata ad una scritta su un muro di Firenze. Le prime file ondeggiano e il “pogo” si fa violento. Poi bis. Dopo l’inedita “Buon anno ragazzi”, Ferretti mormora “Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così” in ricordo di Annarella Giudici, soubrette del popolo, ex Cccp. Infine “Emilia paranoica”. Una testimonianza, eseguita abbassando l’originale di un paio di ottave. Messaggio inequivocabile: Il punk non è mai morto e neanche il medioevo. Csi, fedeli alla linea.
Claudio Dionesalvi
Il Domani, 23 luglio 1998

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