Franco Piperno: «La sinistra si offre come ceto politico prêt-à-porter»

Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da sempre lo accompagna.
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
Credo proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei come negli Stati Uniti. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì contro la rappresentanza. Ho l’impressione che i rappresentanti, in quanto tali, vengano guardati con sospetto. La prima diffidenza nei loro confronti riguarda il trasformismo, un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità.
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
Sì. Pensiamo alla parabola descritta da Syriza. Tsipras è una brava persona e quelle intorno a lui non sono certo delle persone corrotte, ma alla fine volendo prendere il potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi creare il movimento. Il caso di Liberi e Uguali è forse il più melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle, si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più.
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
Sia la Lega che i 5stelle hanno alla loro origine degli elementi interessanti. Penso alla Lega di Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione. Invece, per quanto riguarda i 5stelle, il reddito di cittadinanza e il tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è che entrambi, la Lega e i 5stelle, abbiano già fatto una brutta fine. Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti, mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
Sì, e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di democrazia diretta che hanno del paradossale. Alcuni di loro, per esempio, hanno ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone, quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere comunale, regionale, senza in pratica esistere e senza nessun candidato noto. Com’è possibile?
La loro forza proviene dalla dissoluzione dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5stelle si fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione. Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche dell’astuzia.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

“il manifesto”, 29 marzo 2018

 

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