Una strategia non ancora chiara

Nella scorsa estate l’Italia sconvolta da tangentopoli e scossa dalla crisi economica si risvegliava nel pieno di una nuova strategia della tensione. Via Fauro, via dei Sabini e le chiese di Roma; Via Palestro e Milano; via dei Georgofili a Firenze; una catena di attentati per i quali non esiste oggi alcun indiziato (tranne l’onnipresente Franco Freda).
Quella che segue è un’intervista a Gianni Cipriani e Giuseppe De Lutiis. Il primo, giornalista dell’Unità, autore di alcuni saggi sui misteri della repubblica, e più volte minacciato da “Falange Armata”; il secondo è un sociologo di fama internazionale ed è autorevole studioso di storia dei Servizi Segreti Italiani.
Ci sono delle analogie tra la strage del Pilastro a Bologna e quella di Peteano (’72), perché in entrambi i casi l’obiettivo è stato l’Arma dei carabinieri. Per il Pilastro sarà processato l’intero clan dei Santagata, ma la strage fu rivendicata dalla Falange. Cipriani, che cos’è Falange Armata?
“Sicuramente è stata un’organizzazione fantasma all’interno della quale hanno agito dei settori che facevano capo alla nostra “intelligence”, che hanno portato avanti una strategia di terrorismo psicologico e depistaggio per dei fini non ancora chiari. Falange Armata è stata associata alla cosiddetta banda della “uno bianca”, che è responsabile di una serie di azioni criminali avvenute in Emilia Romagna. Ci sono delle zone d’ombra, ma anche in questo caso è emersa la presenza di “schegge impazzite” dello Stato nella relazione della Commissione stragi”.
Le rivelazioni di Donatella Di Rosa, l’incriminazione di personaggi legati ai servizi dopo il ritrovamento di esplosivo sull’espresso Palermo-Torino (settembre ’93), il piano di assalto alla sede della RAI di Saxa Rubra: si tratta di mitologia o sono episodi che toccano la realtà?
“Sono fatti apparentemente folcloristici che rientrano in un piano per creare tensione; non è un caso che nella vicenda dell’assalto alla sede RAI sia coinvolto un personaggio vicino ad Elio Massagrande, boss di “Ordine Nuovo” (organizzazione neofascista). Esiste quindi una “melma” che porta avanti delle attività di questo tipo, finalizzate al condizionamento di questa transizione politica attraverso l’arma del ricatto e il lancio di messaggi”.
Prof. De Lutis, cosa ha rappresentato, secondo lei, l’attentato in via dei Georgofili?
“Direi che tutti e cinque gli attentati avvenuti in quei mesi presentano una caratteristica comune: hanno impiegato un quantitativo elevato di esplosivo, però hanno fatto esplodere le  bombe di notte e in strade non frequentate. A Roma hanno collocato l’ordigno vicino ad una scuola e di fronte c’era un palazzo abitato… Se l’avessero piazzata sul marciapiede sottostante avrebbero fatto una carneficina. Quindi il messaggio era: “Noi siamo in grado di uccidere molte persone, abbiamo esplosivo a volontà, potremmo mettere le stesse bombe di giorno e in strade frequentate”. È probabile che vi siano dei segnali occulti: a Milano la bomba è stata collocata in una strada dove c’è anche una sede della massoneria. Chi conosce la storia della chiesa di S. Giorgio al Velabro (Roma) sa che molti secoli fa vi si celebravano delle forme di iniziazione di tipo paramassonico. È possibile che dietro le bombe vi siano dei messaggi a noi incomprensibili, mirati a chi è in grado di coglierli”.
Se Lei dovesse individuare dei mandanti, indicherebbe la mafia o i servizi?
“Si tratta di un unico complesso eversivo che ha al suo interno settori dei servizi segreti che furono coinvolti nelle bombe di venti anni fa, e che non gradiscono certo la possibilità che si possa far chiarezza su quelle bombe. Anche la mafia è stata utilizzata come potere anticomunista. È dimostrato che fin dal ’77 i mafiosi furono fatti entrare nelle logge massoniche, cioè non fu la mafia a prendere l’iniziativa, bensì la stessa massoneria ne favorì l’accesso nei suoi meandri. Quindi si tratta di un complesso articolato in cui sono inseriti mafiosi, settori della massoneria e dei servizi e anche “mafiosi in colletto bianco”, perché nessuno mi potrà mai convincere che Totò Riina andasse a Ginevra o a Zurigo a collocare i capitali della mafia; c’è qualcuno che lo faceva in sua vece e che aveva entratura nelle banche internazionali”.
Claudio Dionesalvi
Tribuna Sud Italia, n° 6   1994

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