All’ultimo stadio

(…) A Cosenza come è nato il gruppo ultrà?
“È nato intorno al 1978, assumendo la denominazione di Commando Ultrà. I primi ragazzi che si sono radunati dietro uno striscione provenivano da classi sociali e da quartieri diversi. Sicuramente, tutti (o quasi) erano stati portati allo stadio da soggetti più anziani e tutti guardavano al mito degli hooligans e allo spettacolo del modello di tifo romanista. Solo alcuni di loro provenivano dalla politica, la maggior parte dei quali usciva dalla sinistra extraparlamentare”.
Qual è stata l’importanza della situazione nata in curva per la successiva occupazione del Gramna, il centro sociale di Cosenza?
“Importante come pretesto, perché alcuni di quei soggetti che hanno dato vita al Gramna provengono dalla curva”.
 Che similitudini o rapporti ci possono essere tra la musica e il tifo?
“La tribalità dei cori, poi il fatto che entrambi sono una forma di spettacolo (il tifo lo è di massa), e che in curva i look e i simboli sono spesso presi a prestito dalla musica rock. Ritornando sulle vere o presunte identificazioni politiche delle curve.. Non esiste dire che una curva è di sinistra o destra. A Cosenza mi piace dire che abbiamo una curva de-fascistizzata, nel senso che i fascisti non hanno spazi”.
Che cosa è cambiato, nella vostra curva, dopo la nascita del centro sociale che ha visto molti di voi coinvolti?
“Nel periodo immediatamente successivo all’occupazione, abbiamo continuato regolarmente ad andare in curva, e intanto il Cosenza andava bene e la curva era piena sempre. Noi stavamo assiepati in un piccolo settore in alto nella curva, gente del Centro, dell’ex- Nuova Guardia, della piazza che frequentavamo, eravamo tutti lì. Non era più la Nuova Guardia, quella era diventata la zona del centro sociale e così ci vedeva il resto della curva. Eravamo diventati quasi un’entità politica. Da noi partivano i cori contro la polizia, bloccavamo eventuali cori razzisti (quasi mai ce ne è stato bisogno), la maggior parte della curva ci seguiva e poi ha iniziato a ripetere spontaneamente, senza che fossimo noi ad esserne i promotori. Poi il Cosenza ha iniziato ad andare male, la gente non andava più in massa allo stadio e noi abbiamo finito per perdere lo spazio che ci eravamo ritagliati, fino ad arrivare a Cosenza – Fiorentina del’93, la partite delle ultime diffide, nella quale durante una rissa assolutamente ordinaria, stavamo andandoci di mezzo pure noi. E questo mi ha fatto temere che il nostro caratterizzarci come Centro Sociale ci avesse posti all’occhio degli altri come una sorta di aristocrazia del tifo”.
Cosa accadde in quella partita?
“Dopo la partita ci furono degli scontri con la polizia e prendemmo una ventina di diffide e ci furono pure arresti”.
E dopo?
“Decidemmo di organizzare una protesta, uno striscione: TUTTI COLPEVOLI TUTTI IN SILENZIO. Come per dire, allo stadio non ci sono persone colpevoli e persone innocenti, la violenza non la fanno quei dieci o quindici, la fanno tutti in maniera uguale, sia verbale, sia fisica: la violenza intorno al calcio la fanno tutti; questo era il nostro messaggio, e quindi scegliemmo di andare allo stadio ma di starcene in silenzio, senza tifare. Alla fine, mesi dopo, si giunse ad un compromesso, tramite il Coordinamento club che trattò con la questura e la società. In occasione di Cosenza-Bari, in dicembre, il questore revocò le diffide. Questo, per quanto ne so, è un fatto unico, forse l’unico precedente è dei laziali. Fu una piccola vittoria. Se lo guardi dal punto di vista della realtà che ci circonda non è importante, anzi. Però da ultras è un fatto fondamentale”.
Skrunz (pseudonimo di Claudio Dionesalvi) tace per un attimo, poi riprende.
“Una cosa mi interessa dire con forza: non esiste la retorica di chi dice che gli ultrà sono dei bravi ragazzi. Gli ultrà sono come tutti gli altri, con gli istinti violenti che tutti possiamo avere in questa cazzo di società. La domenica gli ultrà decidono di andare allo stadio e fare a botte perché gli piace farlo. Non tutti forse, ma la maggior parte senz’altro. Io non ci sto più dentro, per le idee che ho abbracciato da qualche anno, per le cose che dico e che penso, io allo stadio non vado più a nuocere a nessuno. Non mi sento più ultrà con la maiuscola perché in me è venuta meno la componente teppistica; mi piace ancora cantare, fare i cori, le coreografie, andare in trasferta quando posso, tutte le altre cose che fanno gli ultrà, poi però non vado più a cercare lo scontro, a dare la caccia all’isolato, a lanciare sassate ai pullman, e tutto quanto quello che prima facevo. Per me ultrà al 100% è chi fa entrambe le cose, spettacolo e violenza. Gli idealismi lasciamoli a chi spera ancora nella pace delle curve, ai giornalisti e a tutti gli altri. A me interessa vedere quello che succede e spiegare che ci sono un mucchio di cose interessanti”.
Ci sono degli episodi particolari che vuoi ricordare della tua esperienza?
“Ce ne sono tanti, è difficile scegliere. Triestina-Cosenza, credo del ‘91 o del ‘92, ultima partita del campionato in cui ci giocavamo la permanenza in serie B. Treno speciale, eravamo in 500. Ad uno di noi viene in mente di ricordare questo ragazzo, Stefano Furlan, ucciso dalla polizia durante le cariche di un Triestina-Udinese di dieci anni fa, con uno striscione: STEFANO FURLAN UN ULTRÀ CHE ATTENDE GIUSTIZIA. Arriviamo allo stadio, la polizia vuole controllare gli striscioni, lo trovano e lo sequestrano, inizia una discussione perché noi sosteniamo che non è uno striscione che fomenta, è un nostro diritto, ma loro niente, praticamente ce lo rubano e se lo portano dietro. Entriamo e i triestini iniziano con i soliti cori contro la Calabria e il sud, TERRONI, insomma tutto quello che ci capita  di sentire ogni volta che andiamo in trasferta da Roma in su. A un certo punto uno di noi scavalca, arriva dove c’era la polizia che aveva lasciato lì in un angolo lo striscione che ci aveva rubato. Riesce a tornare in curva e apriamo lo striscione. L’altra curva, che nel frattempo ci stava insultando, ammutolisce di colpo e parte con un Cosenza Cosenza! La polizia assiste, gabbata. E così per tutta la partita, poi alla fine i triestini sono venuti da noi a ringraziarci, a regalarci le sciarpe e tutto il resto. E questo forse racconta, spiega, più di mille altre parole”. (…)
Marco Mathieu a Claudio Dionesalvi
Rumore, dicembre 1994

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