Mimmo Lucano: «Mi trattano come un criminale mafioso»

Nel villaggio globale di Riace, intorno a Mimmo Lucano si stringe indignata la «compagneria» fedele, quella che non ha mai smesso di sostenerlo. Qualcuno sottovoce ripercorre le tappe che hanno portato alla durissima condanna a 13 anni di carcere, ricordando le relazioni a raffica sulle attività di accoglienza del comune di Riace, disposte nel 2017 dal prefetto Michele Di Bari, che due anni dopo diverrà capo del dipartimento per l’immigrazione nel ministero dell’Interno guidato da Matteo Salvini. Qualcun altro fa notare che una di queste relazioni, rilevando «irregolarità burocratiche e criticità» nella gestione dei migranti a Riace, sancì l’inizio dei problemi giudiziari di Mimmo. Per una casuale forma di contrappasso, fu firmata anche da un funzionario, Salvatore Di Giglio, che pochi mesi dopo sarà a sua volta indagato dalla procura di Palmi per presunte irregolarità in un’altra relazione riguardante però lo Sprar di Varapodio, sempre in provincia di Reggio Calabria. «Stando a quanto sentenziato dal tribunale di Locri, noi ed altri milioni di persone in questi 20 anni avremmo preso un abbaglio», mormorano serrando i pugni alcuni dei militanti accorsi a Riace. C’è chi fa notare che nei territori governati da mille anni dal connubio tra ‘ndrangheta e politica, a parere dei giudici locresi, da ieri c’è una nuova entità extralegale: «Se Mimmo è un delinquente, anche noi tutti lo siamo. E lo è la Riace che avrebbe accolto e dato da mangiare e un tetto a migliaia di esseri umani sfuggiti alla povertà assoluta, alle guerre e alla trappola mortale del mare in tempesta. Questo è il disegno criminoso? E quale ne sarebbe la finalità?». Sarà dunque interessante leggere le motivazioni. Intanto, si formano piccole assemblee spontanee nelle viuzze del paesino ionico. Mimmo è circondato d’affetto e risponde alle domande del manifesto:
Lucano, una sentenza che non si aspettava.
È una condanna abnorme. Non ci posso credere. Mi hanno persino interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Così tutte le mie prospettive politiche, le speranze, sono crollate. Dal questo processo emerge un profilo completamente opposto a quel che sono io nella realtà. Non sono un delinquente. Mi trattano come un mafioso.
Il procuratore capo Luigi D’Alessio, titolare dell’inchiesta «Xenia» che ha portato a questo processo e alla sua condanna, al Gr1 ha dichiarato: «Le sentenze non si commentano. Bisogna leggere le motivazioni. Non era così folle evidentemente la nostra ricostruzione. Non è che io sia particolarmente soddisfatto di tutti questi anni che il tribunale ha comminato». Cosa pensa di queste dichiarazioni?
Davvero ha detto questo? Mi sembra paradossale.
Che idea si è fatto delle modalità con le quali è stato celebrato questo processo?
Il dato istruttorio non è conforme per niente con questa sentenza. Eppure mi aspettavo la piena assoluzione. Il dibattimento sembrava volgere a nostro favore. Alla fine è arrivato questo epilogo assurdo. Al momento non ho elementi per affermare che si tratti di una sentenza politica. E non voglio cercare alibi. Ma di sicuro una conclusione come questa è più pesante di una condanna. Si uccide l’uomo, prima ancora che arrivi la condanna penale vera e propria.
Si sente ferito sul piano morale, oltre che dal punto di vista giudiziario?
Sì, perché credo che nessuno al mondo sinora abbia potuto pensare che io agissi per un secondo fine. Adesso il semplice fatto che ciò sia scritto in una sentenza, mi mortifica.
Cosa farà da domani? Quale sarà il suo cammino politico?
Sono sincero: non lo so. Mi sento demoralizzato. Aspettavo un riscatto, invece i cinque anni di interdizione pesano già come un macigno. Coltivavo il sogno di tornare ad essere sindaco di Riace, perché ero stato sospeso. Ma adesso qualsiasi mio progetto sarebbe privo di solidità. Se anche diventassi consigliere regionale, sarei rimosso dall’incarico un istante dopo. Ho agito sempre seguendo i miei ideali. L’arrivo in Calabria di quelli che purtroppo, a causa dell’ingiusto sistema globale in cui viviamo, sono considerati gli scarti del mondo, mi ha imposto di fare una scelta: stare dalla loro parte. È una scelta coerente con la mia indole politica, quella della sinistra extraparlamentare. Per me schierarmi con le donne, i bambini e gli uomini costretti a migrare è come stare al fianco di operai e sfruttati. In Calabria la questione del proletariato bracciantile si è imposta di nuovo, in modo drammatico, negli ultimi anni. Noi siamo con chi rivendica diritti e lotta contro una condizione di oppressione.
Insieme a lei sono state condannate altre persone, suoi collaboratori. Cosa sente di dire a loro?
Sono più dispiaciuto per loro che per me.
In queste ore le stanno arrivando messaggi di solidarietà da tutto il mondo. Può servire ad alleviare il suo stato d’animo?
In parte sì. So pure che stanno arrivando tanti compagni e compagne. Domani saranno qui. Mi hanno detto che vogliono manifestare per la libertà mia. Quando penso a questo, smetto di sentirmi solo.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti

il manifesto, 1 ottobre 2021

No Comments Yet.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *