Ultrà, storie da vivere e da leggere

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Ci sono due motivi per narrare una storia: sentirsi parte di essa o usarla per lanciare un prodotto di mercato. La narrazione di fatti, eventi ed esperienze collettive è il cuore di qualsiasi comunità, gruppo umano, movimento. Non esiste possibilità di mettere insieme le persone intorno a un’idea, una fede, una terra, senza rituali che le tengano unite. I riti servono proprio a rendere unici alcuni momenti, consolidare le appartenenze, scrivere una trama che collega situazioni distanti nel tempo.
Gli ultrà del calcio sono tutto questo. Ciascuna tifoseria custodisce un’epica, una mitologia, una fitta tessitura di racconti che si tramandano da una generazione all’altra, intrecciando vicende legate alla propria squadra di calcio, storie di vite individuali e di gruppo. A volte si ha quasi la sensazione che in assenza di questa narrazione corale, gli ultrà neanche esisterebbero.
Negli ultimi anni le tifoserie si sono spaccate al proprio interno, ma i singoli gruppi appaiono più organizzati, solidi e compatti. Nei paesini piccoli come nelle grandi città, dietro ciascuna “pezza” o striscione si raccolgono moltitudini di ragazze e ragazzi vestiti in modo sempre più uniforme, dotati di rigide gerarchie, predisposti allo scontro fisico. È sempre stato così, in fondo. C’è poco da meravigliarsi. Cambiano solo gli stili, non il contenuto.
La maggior parte dei gruppi assume questa forma compatta soprattutto in trasferta. A prima vista, sembra la logica conseguenza delle leggi speciali adottate dallo Stato negli stadi di calcio nell’ultimo quarto di secolo; e in particolare dal 2009, quando si affermò la “dottrina Maroni”. Eppure, questa modalità “testuggine”, che quasi sempre i gruppi assumono, può anche essere interpretata come il riflesso di una crisi, la reazione al fatto che il mondo del tifo organizzato stia sparendo o comunque mutando. Chi ne fa parte, avverte l’istintivo bisogno di “serrare le file” e raggrupparsi. L’isterica produzione continua di gadget, materiali, adesivi e magliette, oltre il naturale bisogno di autofinanziarsi e testimoniare la propria esistenza, confermerebbe questa diffusa “sensazione di peggioramento”. Non importa che si tratti di un regime politico o una parrocchia. Di sicuro, qualsiasi aggregazione umana aumenta la produzione di simboli, comunica di più, quando si sente minacciata, deve mantenere un ruolo dominante e sa che sta per perderlo; quando ha paura di essere cancellata dalla memoria.
Da sempre, ciascun ultrà narra le storie vissute insieme ai propri compagni. Lo fa con orgoglio e pudore. Negli ultimi anni, a questa ritualità simile a quella religiosa si è aggiunto un altro racconto. È il cosiddetto storytelling che, al contrario della narrazione rituale, mira a vendere un prodotto di consumo. Da tanti anni, ormai, l’arte coreografica e la vocazione conflittuale, che gli ultrà attuano ogni settimana dentro e fuori gli stadi, sono divenute anche una merce. Il tifo e la violenza portano soldi nelle casse delle Tv a pagamento, dell’apparato di ordine pubblico e del merchandising. Molti ultrà sono consapevoli di questo esproprio del loro tempo e delle loro stesse esistenze da parte del football system. Tanti altri, no! Perché la trasmissione di simboli e riti si accompagna sempre meno al racconto orale e scritto. E così tanti fatti appaiono “nuovi”, pur essendo già accaduti infinte volte, in passato.
Per esempio? Quanti ragazzi sono deceduti, carbonizzati, nei treni delle trasferte? E quanti sono stati uccisi dagli agenti in divisa? È mai esistito un “codice d’onore” negli scontri ultrà? E come è stato “normalizzato” il tifo nel secolo scorso?
Sono domande alle quali può rispondere soltanto chi c’era, ma non chi c’è da poco.
Diventa allora fondamentale leggere libri come quelli di Pierluigi Spagnolo: “I ribelli degli stadi” e “Contro il calcio moderno” (Odoya). Hanno il grande merito di ricostruire in forma sintetica e chiara un’ampia e complessa storia collettiva, di cui i vecchi farebbero bene a rinfrescare la memoria e i giovani ad approfondirla. Senza però commettere l’errore di rendere il passato ancor più opprimente.
Claudio Dionesalvi

la foto è tratta dal libro “Contro il calcio moderno” e ritrae ultrà degli anni settanta in curva e mentre (senza biglietto) scalano San Siro

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