La prima volta da professore

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Il primo giorno di scuola, per me, è domani. Nella casella dell’orario, il mio martedì è bianco. Ho a disposizione una luna in più per riflettere. Aspetto l’ora “X” con ansia, come quando stavo dall’altra parte della cattedra.
Fatico a calarmi nei panni dell’insegnante. Chissà che faccia faranno i ragazzi quando vedranno la mia? Sarò in grado di stare in mezzo a loro senza urlare, sbruffare e fare melina fino alle 13,30? Diventerò come quei professori che, da scolaro, tanto disprezzavo?
Un’infinità di domande volteggiano nella testa del novello docente. Devo davvero cantare l’inno di Mameli insieme agli alunni? Vabbé, possiamo pure farlo per un giorno. Ma quello successivo, intoneremo il Cantico delle Creature di Francesco D’Assisi, e magari poi “Light my fire” di Jim Morrison, oppure gli ultimi pezzi di Manu Chao.
Tanta fantasia, alla vigilia del primo giorno di scuola. Ma rimangono poche certezze. L’unica piacevole sorpresa è d’aver trovato un ambiente cordiale e sereno. E quando penso agli amici e ai tanti colleghi, che pur di conquistare un punticino in più in graduatoria, hanno dovuto sfidare le fosche nebbie delle sperdute lande padane, ringrazio Madre Natura e la Dea bendata. Non capita a tutti di poter lavorare nella propria terra, con uno stipendio più basso degli standard europei, ma comunque sufficiente a vivere con dignità. Se poi si volge lo sguardo alle migliaia di giovani calabresi, ridotti in schiavitù, alle dipendenze delle cosiddette “imprese” locali, la condizione del professorino diventa un vero e proprio privilegio.
Negli ultimi giorni, migliaia di neo-insegnanti hanno assiepato i corridoi del Provveditorato. Pressati e frenetici, parevano, anzi sembravamo, tonni felici di farci irretire in una gigantesca mattanza degli intelletti. “Prima io, no ci sono prima io. A me il ruolo. Quella scuola tocca a me”. A qualcuno è capitato anche di subire le disfunzioni di un apparato burocratico elefantiaco. Una rete complessa di leggi e criteri di dubbia interpretazione. “Cucù – gioco delle tre carte – e quella sede non c’è più, ce ne è un’altra, un po’ più distante. Prendere o lasciare”. L’ordinamento scolastico è complesso per chiunque, persino per i sindacalisti più missionari e integrali. Un manicomio cartaceo, dal quale bisogna riuscire a star lontani, se si vuole evitare di odiarla, la scuola. Guai a lasciarci travolgere da quella mania, tutta americana, di calare nelle classi il modello della produttività aziendale. Si finisce per dimenticare che in mezzo ai banchi siedono giovani esseri umani. Uomini, donne, non macchine! Parole abusate, che non trovano spazio nel lessico della scuola berlingueriana, molto simile ai programmi delle comunità di recupero per tossicodipendenti: “offerta formativa”, “figura obiettivo”. Un miscuglio di formule, che servirebbero a poco, se alla base non operassero tanti sinceri insegnanti. Persone che già da stamani, entrando in classe, avranno il difficile compito di spiegare ai ragazzi perché martedì scorso, in America, si è consumata una delle più cruente battaglie della quarta guerra mondiale.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 18 settembre 2001

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