Il caso Arcidiacono

Alla fine arrivò persino il Daspo. Un fatto mai visto in venti anni di sport. Un calciatore interdetto per tre anni dai campi di calcio dalla questura di Catanzaro, competente sullo stadio di Lamezia. Non “per aver incitato all’odio e alla violenza” come prevede la legge. Ma per aver solidarizzato con un amico che ritiene innocente. Per la polizia, nell’occhio del ciclone dopo gli scontri durante le manifestazioni del 14 novembre, trovare un ballon d’essai, capace di distogliere l’attenzione era importante. E così è stato. Per Pietro “Biccio” Arcidiacono, calciatore di quinta serie, un talento di periferia, il nuovo Insigne del calcio dilettantistico, sono ore difficili, quasi drammatiche. È sulla graticola da 72 ore. La sua colpa? Aver dedicato un suo gol ad Antonino Speziale, uno dei due ultrà del Catania (l’altro è Daniele Micale) condannati per omicidio preterintenzionale con sentenza passata in giudicato per la morte dell’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti, il 2 febbraio 2007 prima del derby Catania- Palermo. La scena si svolge a Lamezia, nel quartiere di Sambiase, sabato scorso, durante Sambiase-Cosenza. L’urlo del gol appena segnato è ancora in gola quando Arcidiacono, catanese doc, corre verso il fratello Salvo, anch’egli giocatore del Cosenza, che dalla panchina gli porge una maglietta. Una canottiera in dotazione alla squadra bruzia con sovraimpressa a pennarello la scritta: “Speziale è innocente”. Tutto a favore di telecamere, quelle di Raisport che trasmette in diretta la partita. Da quel momento in poi Arcidiacono entra nel tritacarne delle polemiche. Lui a fatica prova a difendersi (“la scritta non era contro la famiglia Raciti. È stato un gesto di solidarietà verso un amico con cui mi sono cresciuto in un quartiere difficile di Catania”). Ma il caso ormai è montato. Ed è una gara a chi la spara più grossa. Il Dipartimento Interregionale della Lega Nazionale Dilettanti ha inviato alla Procura Federale della Figc «tutti gli atti in proprio possesso» relativi al gesto del giocatore del Cosenza. Lo ha reso noto la stessa Lnd, che inoltre «stigmatizza il gesto del calciatore, prendendone le distanze». La stessa società calabrese si era già dissociata dal proprio tesserato, preoccupata anche di una possibile sanzione, sottolineando la propria estraneità ai fatti, e aveva provveduto alla sua sospensione. Dopo la notifica del DASPO, il Cosenza Calcio ha deciso che ricorrerà al TAR. Da parte sua il Procuratore Federale della Figc, Stefano Palazzi, aprirà un fascicolo sul caso.
Ma a scatenarsi sono stati soprattutto i sindacati di Polizia che chiedono per “Biccio” la radiazione e una dura penalizzazione per il Cosenza per “un gesto irresponsabile che non aveva altro scopo che fomentare ancora odio verso le forze dell’ordine”. Non paghi, i sindacati invitano i tifosi del Cosenza a dissociarsi platealmente e “abbandonare domenica prossima gli spalti del San Vito in solidarietà verso le forze dell’ordine”. Niente di tutto questo. Perché gli ultrà della curva stanno col giocatore.
 
Cosenza con “Biccio”
C’è chi vorrebbe dargli la cittadinanza onoraria. Guai a chi tocca “Biccio” Arcidiacono! Che ha conquistato la simpatia e l’affetto dei cosentini molto prima di sabato scorso, rifiutando offerte pervenutegli da squadre di serie B, e segnando gol tanto spettacolari quanto importanti. Ora la parte verace della tifoseria del Cosenza si stringe intorno al campioncino catanese. In città è un coro unanime: finalmente un gesto di coraggio e di verità. Dietro le migliaia di attestazioni di stima e solidarietà pervenute al calciatore, serpeggia comunque una certa paura sportiva. Negli ultimi dieci anni la società rossoblu è stata già pesantemente penalizzata dalla FIGC. Due fallimenti, altrettante retrocessioni a tavolino, nessun ripescaggio, nemmeno l’anno scorso, nonostante il Cosenza avesse conquistato sul campo il diritto a partecipare al campionato di LegaPro, vincendo i play off di serie D nella finale di Arezzo. Poche settimane dopo, mentre la città festeggiava la promozione, è arrivato l’altolà del presidente Mario Macalli che ha negato ai “lupi” l’accesso al professionismo sulla base di un cavillo. E non c’è stato niente da fare. Ricorsi bocciati, porte chiuse al Cosenza Calcio. Ecco perché adesso in riva al fiume Crati in tanti temono che, con la scusa di sanzionare il gesto di Arcidiacono, un nuovo duro castigo si possa abbattere sullo stadio San Vito. Eppure, persino tra quanti si aspettano rappresaglie calcistiche ai danni della squadra, prevale la convinzione che la libertà di pensiero è infinitamente più importante delle minacce di ritorsioni che in queste ore stanno piovendo da Roma. Tutti d’accordo nei capannelli che già domenica mattina si sono formati davanti ai tradizionali luoghi di ritrovo della tifoseria: il ragazzo ha solo urlato un’opinione condivisa da migliaia di persone in tutta Italia. Perché allora dovrebbe essere punito? Se in questo Paese tutti usano il calcio per lanciare messaggi di ogni genere, perché mai un calciatore non potrebbe dire la sua? Non soltanto digitali i messaggi di solidarietà pervenuti ad Arcidiacono. Ieri pomeriggio, alla ripresa degli allenamenti, centinaia di tifosi hanno circondato il terreno di gioco e bloccato per pochi minuti il lavoro della squadra e del mister. Chiedono che la società rossoblu faccia quadrato intorno al giocatore. È evidente che le richieste dei sindacati di polizia hanno sortito l’effetto contrario: a Cosenza, come un po’ dovunque, è difficile cancellare dalla memoria collettiva le cariche, i gas CS e le violenze poliziesche subite da migliaia di persone, in nome della normalizzazione imposta dal calcio moderno.
Uno strano processo
A chi in queste ore sbraita è opportuno rinfrescare la memoria sulla storia giudiziaria di Antonino Speziale, l’ultrà condannato per l’omicidio del poliziotto Raciti al termine di un iter processuale pieno di ombre e buchi neri. A cominciare dal suo provvedimento restrittivo, annullato senza rinvio dalla Cassazione il 29 aprile del 2008 per mancanza di indizi, lacune insormontabili, che però sono state sufficienti ad incardinare un processo. Testimoni che han cambiato la propria posizione, il capo d’imputazione declassato da omicidio volontario a preterintenzionale, i 14 anni di condanna in primo grado che scendono a otto in appello. Dagli atti sembrerebbe che Raciti sia morto per una fatalità: è stato investito da un fuoristrada della polizia che si muoveva in retromarcia, circostanza questa che emerge, inconfutabilmente dalle carte del processo. Non c’erano testimoni né immagini, le persone che erano presenti non hanno mai visto tale scena, le perizie medico legali sono assolutamente illogiche, i tempi del decesso non coincidono.
E poi quelle macchie di vernice blu sugli scarponi e sulla maschera antigas di Filippo Raciti. Cosa ci facevano? Gli investigatori del Ris di Parma che dovevano stabilire se l’ispettore di polizia fosse stato ucciso dal pezzo di un lavello impugnato dagli ultras hanno di fatto escluso questa ipotesi: non c’è nessun elemento che la confermi. Hanno persino colpito per 14 volte un manichino con un oggetto identico, ottenendo lo stesso risultato: se fosse stato un uomo, sarebbe rimasto vivo. Una tesi che il consulente della difesa Carlo Torre ha messo nero su bianco: “Il complesso lesivo si adatta benissimo ad un trauma di tipo automobilistico.”. Nei laboratori di Parma i misteri dello stadio Massimino si sono infittiti. I tecnici dell’Arma hanno escluso la possibilità di identificare vittima e aggressori attraverso le immagini delle telecamere. L’andamento dei tagli nella giacca di Raciti, la scarsa presenza di particelle di acciaio, l’assenza di tracce della pellicola protettiva del sottolavello e gli effetti dei test d’impatto, nessuno dei quali potenzialmente letale, hanno indotto a ritenere che l’arma del delitto non fosse quella indicata. E, mistero nel mistero, anche le fibre di tessuto ritrovate sullo spigolo del sottolavello non appartenevano, secondo il Ris, alla giubba che l’ispettore Raciti indossava quella sera. La sorpresa più evidente salta fuori dal campione di vernice blu prelevato dalla maschera antigas e dagli anfibi dell’ispettore morto durante gli scontri: “L’analisi ha consentito di accertare che i frammenti di colore azzurro sono costituiti da una resina acrilica modificata con nitrocellulosa e con una forte presenza di biossido di titanio quale carica inorganica”. La vernice sugli anfibi e la maschera è la stessa. C’è poi il mistero sull’ora del decesso. L’esame del Ris lo colloca tra le 19,02 e le 19,11. La difesa lo sposta in avanti, alle 20,30, e punta i propri riflettori sul Discovery della polizia, impegnato in una improvvisa retromarcia per sfuggire al lancio di pietre e bombe carta degli ultras. Ha scritto il perito Torre: “Credo, in conclusione, che Filippo Raciti sia morto non per un’emorragia intraperitoneale conseguente alle lesioni del fegato, ma per un trauma toracico coinvolgente l’apparato respiratorio. Un trauma di tipo automobilistico”. Un trauma che, secondo la difesa, è perfettamente raccontato nel verbale (pubblicato da L’espresso del 12 aprile 2007) dell’agente che guidava il gippone azzurro: “Innescata la retromarcia ho spostato il Discovery di qualche metro. In quel momento ho sentito una botta sull’autovettura ed ho visto Raciti che si trovava alla mia sinistra portarsi le mani alla testa. Ho fermato il mezzo e ho visto un paio di colleghi soccorrere Raciti ed evitare che cadesse per terra”.
Nonostante tutte queste ombre processuali Speziale è stato condannato ad otto anni in via definitiva. Ma la partita giudiziaria potrebbe però riaprirsi: i legali hanno annunciato che chiederanno la revisione del processo. Intanto domenica si torna in campo. E, come in una nemesi, in serie A è di scena Palermo-Catania.
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti – (Cosenza)
il manifesto, 20 novembre 2012

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