Quel terribile giorno che cambiò il mondo degli ultrà

“Buoni” non lo siamo mai stati. Innocenti ancor di meno. Per definizione, un ultrà è una persona che va al di là di qualcosa, dei propri limiti e di chi glieli vorrebbe imporre. Sarebbe inutile negarlo: abbiamo sempre coltivato una simpatia verso lo scontro, oltre che la passione per le coreografie di massa, i cori, i colori e il senso comunitario che caratterizzano l’appartenenza a una curva.
Eppure in un certo senso perdemmo l’innocenza, quando 20 anni fa, il 29 gennaio del 1995, prima di un Genoa-Milan, morì il ragazzo genoano Vincenzo Claudio Spagnolo, soprannominato “Spagna”, pugnalato da un diciottenne ultrà del Milan. Di morti ammazzati dentro e fuori gli stadi ce ne erano già stati. Ma quella tragedia ci modificò per sempre o forse fu il sintomo di un cambiamento che stava avvenendo. Insieme a Claudio morì una parte importante del nostro mondo: la spontaneità! Da quel momento in poi, si capì che non saremmo mai più stati noi stessi. Non avremmo potuto indossare spavaldi le nostre sciarpe né saremmo stati lasciati liberi di andare in giro baldanzosi per le strade e le piazze d’Italia. In realtà eravamo già braccati prima che quel pugnale raggiungesse il cuore del nostro fratello genoano. È probabile che le modalità con cui si verificò la funesta scaramuccia tra alcuni Grifoni e Milanisti, nei pressi di “Marassi”, fosse proprio la conseguenza di un nuovo stile di vita che si stava affermando all’interno delle curve, quello delle “firm” di anglosassone ispirazione. In Inghilterra i supporters delle squadre di calcio erano già abituati, da qualche anno, a viaggiare in incognito per aggirare i controlli asfissianti delle forze dell’ordine. Questa pratica fu causa di diverse tragedie, oltre che di un profondo snaturamento della cosiddetta terrace culture. Di certo, anche noialtri, in quella fase storica, divenimmo definitivamente clandestini. Accadde pure un fatto nuovo: vivemmo in forma diffusa il lutto per la perdita di Claudio, insieme a tanti altri ultrà, a prescindere dalle rivalità e dai confini invisibili esistenti tra di noi. Quel dramma umano ci costrinse a chiederci chi realmente fossimo. Ci furono incontri tra esponenti di curve distanti geograficamente e simbolicamente. I funerali di “Spagna” si trasformarono in un evento condiviso, una vera e propria pagina di storia. C’erano tutti i gruppi o quasi. Ne nacque una campagna: “Basta lame, basta infami”, contro l’uso di coltelli e pugnali negli scontri. Alcuni gruppi si affrettarono a prendere le distanze. In Italia c’è sempre un bastian contrario che deve dire la sua a tutti i costi, ogni qualvolta qualcuno fa o dice una cosa giusta. A quella campagna si oppose l’acronimo BISLA: Basta infami solo lame, a voler rivendicare la giustezza di una pugnalata nel gluteo del nemico, hobby prediletto di neonazisti d’accatto e balordi incalliti.
Ma al di là delle naturali e prevedibili divisioni, si tornò a discutere sul senso profondo della violenza, sul significato che essa assumeva nella fase storica in cui vivevamo. In tanti scegliemmo di restare ultrà, ma decidemmo di rivolgere la nostra aggressività contro i padroni del baraccone calcistico. Fu automatico iniziare a partecipare con maggior convinzione alle lotte sociali. La morte di Claudio ci segnò profondamente. Capimmo che nella nostra esistenza non c’era più spazio per “le guerre in trappola” e che era davvero arrivato il momento di “uscire dal ghetto” e “vivere ultrà per vivere”. Nella vita di tutti i giorni, e non solo a parole.
Claudio Dionesalvi
Voce Ribelle, numero zero/11 – 24 gennaio 2015

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