Il contagio? Colpa della “polverina”!

I negazionisti si chiamavano “segretisti”, i poveri morivano più dei ricchi, la scienza era impotente, obbligatori confinamento e quarantena, inconsistenti si rivelarono i blocchi ai confini interprovinciali. Lo spiega Giovanni Sole, studioso, stimatissimo docente dell’università della Calabria, regista, autore di pregevoli pubblicazioni sulla storia locale, sempre improntate al fact checking intorno ai miti che qualche storico maldestro, la tradizione orale e le credenze popolari avevano erroneamente elevato a fatti reali. Dalla lettura dei suoi libri e articoli emerge un’amara verità: in tutti questi secoli, dinanzi a fenomeni come il propagarsi di gravi malattie, non è cambiato niente. In Calabria nel 1837 c’erano persino i commissari straordinari alla Sanità, che già combinavano disastri. Lo riferisce il medico Antonio D’Alessandro, a proposito dei discutibilissimi metodi terapeutici adottati da un suo collega nominato commissario per contrastare il colera:
A Cosenza i malati erano ammassati e abbandonati nel convento della Riforma.
Esattamente come accade oggi, il mondo era pieno di esagitati che credevano nell’esistenza di una mano stragista dietro la propagazione del contagio. All’epoca non potevano prendersela né con fantomatici virus creati in laboratorio né con la tecnologia 5G. E nemmeno ipotizzavano guerre batteriologiche, pur essendo risaputo l’impiego di agenti patogeni a scopo bellico in contesti storici come lo sterminio degli indigeni d’America tra i secoli XVI e XIX , nonché il conflitto tra Mongoli e Genovesi nel XIV. A differenza di oggi, quando cercavano di individuare una causa precisa per la diffusione di una malattia, gli antichi non tentavano di salvare il restante sistema, cioè di vaccinarlo additando un male isolato pur di placare il proprio turbamento psicologico. Sapendo che di solito niente intorno a loro era sotto controllo, i nostri antenati non erano mossi dalle odierne psicosi collettive nel convincersi che il disastro pandemico fosse stato provocato da un fatto episodico e colposo. Eppure, anche in loro dominava la tentazione di andare a caccia di trame, macchinazioni e capri espiatori. “Il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di doverci confrontare da soli con la verità”, diceva Pier Paolo Pasolini. E la verità è che zoonosi e pandemie, purtroppo, sono sempre esistite. Essere andati sulla Luna, avere inventato l’energia nucleare, portare in tasca uno smartphone, non ci proteggono da nuove malattie letali a rapida diffusione. E non è stato il capitalismo a produrre deliberatamente, a tavolino, la Covid19. Piuttosto, questa patologia è uno dei tanti effetti secondari e fisiologici della sua azione, una delle conseguenze dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Il resto lo fa la globalizzazione neoliberista. Peggio delle guerre, accelera il contagio su scala planetaria e poi provvede, dietro lauti compensi degli Stati, a tessere le reti di intelligenze che globalmente scoprono i vaccini. Dunque il capitalismo, come in tutte le calamità, si limita a sguazzarci dentro.
Tutto ciò restava ignoto in epoche antiche. Non c’era consapevolezza dell’azione di virus e batteri. Chiunque fosse sospettato di essere un “avvelenatore”, uno spargitore della “polverella” velenosa che secondo la maggior parte della popolazione sarebbe stata all’origine del contagio, subiva l’aggressione di folle inferocite, il linciaggio, la condanna a morte. Sullo sfondo si agitavano i conflitti sociali e politici dell’Italia risorgimentale. Governo e oppositori strumentalizzavano la pandemia e si rimpallavano l’accusa di avere armato la mano degli untori. I Borbone ne approfittarono per arrestare numerosi “settari” sostenendo che il contagio sarebbe servito a destabilizzare la monarchia. I liberali cosentini replicarono diffondendo in città la loro versione dei fatti:
(1)
La situazione non mutò in occasione dell’epidemia successiva, nel 1866. Dalle pagine de “La Libertà” del gennaio 1867 apprendiamo che
Poi, cento anni fa, il flagello si ripresentò nelle vesti della Spagnola: “A Belvedere Marittimo, i lamenti degli oltre cento ammalati e il rantolo dei moribondi si confondevano col clamore per la fine della guerra. Le autorità nei mesi precedenti avevano cercato di nascondere la portata dell’epidemia per non allarmare le comunità. Il 15 settembre 1918, l’ufficiale sanitario di S. Lorenzo Bellizzi, polemizzando con un suo collega, tranquillizzava i cittadini sostenendo che l’influenza era frutto della fantasia. L’influenza, diffusasi nei primi di agosto, aveva «attaccato» 300 persone, di cui solo 35 erano morti, ma si trattava in gran parte di contadini che vivevano nelle campagne circostanti dove, per ovvie ragioni, l’assistenza sanitaria era inevitabilmente deficiente e difettosa. Da settembre la «spagnola» si era sviluppata con rapidità impressionante causando centinaia di vittime anche tra individui sani e robusti. A San Giovanni in Fiore, paese dall’aria salubre e l’acqua limpida, i contagiati si contavano a «migliaia» e i morti erano «numerosissimi». A Paola, secondo alcune stime dei sanitari,  gli ammalati erano 1.500-2.000 di cui la maggior parte abbandonati a se stessi per la mancanza d’assistenza. A Castrolibero, comune di 2.129 anime, 400 infermi ricorsero alle cure dei medici ma le autorità precisavano che erano almeno il doppio perché in tanti preferivano curarsi da soli. A Rossano il morbo infieriva in tutta la sua tragicità e in paese mancavano, medici, medicinali e disinfettanti. Il cimitero era pieno di cadaveri non ancora seppelliti e, poiché il sindaco aveva ordinato agli spazzini di scavare fosse, le strade erano piene di immondizia. Gli ammalati a Cosenza erano a centinaia e la gran parte abitavano nei «bassi» malsani, «luride tane» e «immonde topaie» privi di luce e di gabinetti. I morti erano numerosi e non c’erano casse per seppellirli: per una semplice bara costruita con quattro modeste tavole rivestite di modestissima tela, si spendevano fino a 300 lire”.  (2)
Che si trattasse di pestilenze, del colera o della Spagnola, l’umanità reagì sempre con isteria e impreparazione. Noialtri, dal marzo scorso, andiamo perpetuando gli errori del passato. Per difenderci dal coronavirus, non avremmo dovuto farne una questione di spazio, bensì di tempo. Ci siamo distanziati, ma ancor più importante sarebbe stato rallentare il ritmo delle nostre azioni giornaliere. Impraticabile, certo, in una società come la nostra, che non permette a nessuno di fermarsi. È accaduto anche in seguito a recenti terremoti. Pensiamo al sisma dell’Emilia Romagna nel 2012. Per imprenditori e politici, bisognava subito “ripartire”, a tutti i costi. Così, pochi giorni dopo la prima potente scossa, tante persone tornarono a lavorare in capannoni fragili. Rimasero sepolte dalle macerie provocate dalla seconda scossa, devastante più della precedente. I loro datori di lavoro non avevano voluto attendere la fine dello sciame sismico.
Nel caso della presente pandemia, se proprio non abbiamo voglia di leggere qualche buon testo di storia, basterebbe una passeggiatina al cimitero. Nelle cappelle di famiglia troveremmo anche tanti parenti nostri, morti di Spagnola. Ci parlerebbero di quanto sia inappropriato, in questi casi, attendersi risposte dal futuro. È la memoria del passato che bisognerebbe esplorare. Ma quella abbiamo sempre fretta di cancellarla. Senza un sufficiente grado di incoscienza, non riusciremmo a ripartire.
Claudio Dionesalvi
(1) Giovanni Sole, in “Classe. Rivista di analisi critica della società”, n. 20, a. XII,  Milano, dicembre 1981 pp. 101-133)
(2) Giovanni Sole, Shrapnel e Schwarzlose. La Grande Guerra in una provincia calabrese, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, pp. 242 e seg.
La foto del chiostro nel convento del Santissimo Crocifisso (la Riforma) a Cosenza è di Franco Gagliard.
Quella dei due londinesi con la mascherina è liberamente scaricata dalla rete (il blog inviatodanessuno.it non ha finalità commerciali o di lucro)

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