Dalla Calabria al Brasile. Storia di Libero Giancarlo Castiglia

Libri. «Joca, il Che dimenticato», di Alfredo Sprovieri edito da Mimesis
Di Ernesto Guevara, Giancarlo Castiglia possedeva tante virtù. Li accomunava non soltanto la fine, l’esser morti combattendo in una foresta del Sudamerica, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro. Soprattutto, pur non essendosi mai conosciuti, i due condividevano la propensione alla tenerezza, il coraggio, il desiderio di vivere l’utopia.
Libero Giancarlo Castiglia, conosciuto come «Joca», era un ragazzo calabrese, uno dei tanti emigrati in Brasile, insieme a tutta la famiglia, per trovare lavoro. Alla storia di questo giovane metalmeccanico comunista, nativo di San Lucido in provincia di Cosenza, entrato in clandestinità dopo il colpo di Stato del 1964 in Brasile, il giornalista Alfredo Sprovieri ha dedicato Joca, il «Che» dimenticato (Mimesis, pp. 146, euro 12, con l’introduzione di Goffredo Fofi). «Mentre Alfredo scriveva la storia di mio fratello Giancarlo, era come se lui fosse in mezzo a loro, pareva che stesse accompagnando quei 69 ragazzi che facevano parte della colonna guerrigliera nella foresta amazzonica», spiega Walter Castiglia che oggi vive in Italia ma all’epoca dei fatti si trovava a Rio de Janeiro insieme al resto della famiglia.
JOCA e i suoi compagni erano giovani e adulti militanti del Partito Comunista do Brasil. Scelsero la via delle armi per opporsi alla dittatura dei gorillas. Sulle tracce di Giancarlo e dei suoi compagni, Sprovieri perviene nel 2009 lavorando nella redazione del quotidiano Calabria Ora. In una nottata da precario dell’informazione, trascorsa come tante chiudendo pagine, sul monitor appare uno scarno lancio d’agenzia: «È stato ritrovato in Brasile il corpo di un ragazzo italiano scomparso all’inizio degli anni settanta». Il giovane cronista avverte l’impulso di approfondire la notizia. Gli basta recarsi il giorno dopo nel paesino di cui Castiglia era originario per capire che dietro quel ritrovamento c’è una storia umana e politica intensa, collettiva, consegnata all’oblio da abili mani interessate a cancellarla per sempre. Ne viene fuori un’inchiesta appassionante, prodotta in perfetto equilibrio tra ricerca storiografica e spinta narrativa.
IN QUEL BRASILE molto simile alla Calabria da cui il protagonista proveniva, la situazione precipitò all’indomani del golpe attuato dalle truppe del generale Olímpio Mourão Filho. Seguendo un copione già adottato negli innumerevoli colpi di stato in America latina, obiettivo delle squadracce militari divennero gli attivisti politici delle formazioni di sinistra, che furono braccati, arrestati, torturati, uccisi.
Una parte consistente della società brasiliana si ribellò, nonostante fosse impotente davanti al nemico. «Pure tanti cattolici andarono contro i carri armati con il vangelo in mano. Era un moto profondo di disprezzo contro gli oppressori», racconta il fratello superstite di Joca. Tra quanti decisero di imbracciare le armi, anche il leader del PC brasiliano Mauricio Grabois. Insieme a lui, donne di elevato spessore politico come Lucia Maria de Souza, «Sonia». Ne nacque una brigata che si rifugiò nella foresta, col tempo conquistò l’appoggio solidale dei campesinos e organizzò la resistenza. Per qualche anno la guerriglia dell’Araguaia diede filo da torcere all’esercito brasiliano che riuscì ad avere la meglio solo assoldando numerosi tagliagole di mestiere. Uno dopo l’altro caddero tutti i militanti di quel piccolo esercito partigiano. Joca fu uno degli ultimi a morire combattendo. Ma se le gesta sue e quelle dei suoi compagni ritrovano dignità nel racconto di Alfredo Sprovieri, non la medesima fortuna hanno incontrato le sue spoglie mortali intorno alle quali continua a regnare il mistero.
Non sono state mai restituite ai suoi cari, sebbene in tempi recenti non siano mancate iniziative istituzionali per cercare di riportarle in Italia. A distanza di quattro decenni da quei fatti, in un Brasile attraversato da nuovi conflitti e scandali, condizionato dagli attori della passata dittatura, qualcuno teme ancora la verità su quella pagina di storia. Risuonano immanenti le parole con cui Giancarlo Castiglia si congedò dalla madre prima di aggregarsi alla guerriglia: «Se nessuno prende una decisione, quando si libera un popolo?»
Claudio Dionesalvi

“il manifesto”, 1 maggio 2018

 

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