Lavorare di più insegnare di meno

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Giacomino è un bidello.  Un paio d’anni fa, in una grigia mattinata d’autunno, mentre puliva i bagni, ha sentito delle urla in cortile. S’è precipitato fuori e gli è toccato separare due mamme che si stavano azzuffando per un litigio infantile scoppiato tra i loro figli. Per fortuna ne conosceva bene una. Era una sua vicina di casa. Così è riuscito a riportare la calma un attimo prima che succedesse una tragedia. Nelle scuole del Paese delle meraviglie della signora “Alice” Gelmini forse i collaboratori scolastici hanno le ali dorate, e quando puliscono i bagni, sono circondati da festanti angioletti. Nella scuola reale, invece, ai bidelli può anche capitare di sedare una rissa tra genitori… e magari dover convincere una giovane mamma a riporre nella borsetta la pistola appena estratta. Certo, non capita tutti i giorni. Anzi, quasi mai. Ma se dovesse accadere di nuovo, di sicuro scoppierà una sparatoria. Perché Giacomino non potrà intervenire più. Essendo uno dei tantissimi precari in esubero, il suo posto è stato tagliato dal governo. Non ce la fa a digiunare per protesta insieme ai colleghi Ata davanti ai provveditorati. Già in passato, quando era anche lui in servizio, per arrotondare faceva il muratore. Adesso che gli è rimasto solo questo mestiere da fare, non può restare senza pasto. Crollerebbe. Analoga sorte è toccata a migliaia di insegnanti. Gente che ha lavorato nei luoghi più sperduti della penisola pur di racimolare punti per salire in graduatoria. E che quindi ha accumulato un enorme bagaglio di esperienze. Avendo macinato tanti chilometri, nella maggior parte dei casi questi docenti sono i migliori nella didattica, bravi sul piano relazionale, consapevoli del proprio ruolo. Ecco perché quest’anno in centomila resteranno a casa. Nella scuola della Gelmini e di Marchionne, gli insegnanti preparati e i bidelli umani sono una minaccia. Potrebbero disturbare l’ultima fase di abbrutimento del sistema d’istruzione pubblica.
I segnali sono tanti, inequivocabili. Almeno due campanelle hanno già suonato in chiusura e apertura d’anno scolastico. E stavolta non è stato il vecchio Giacomino a farle squillare. È un peccato che frotte d’insegnanti di ruolo, ossessionati dalla vergogna di dover ammettere quanto miserabile sia la loro condizione lavorativa, si rifiutino di prenderne atto. Nell’irrazionale terrore di far brutta figura col mondo intero, piuttosto che ragionare insieme sulla propria condizione, quasi tutti sono lì, impegnati a redigere Pof o a scegliere libri pieni zeppi di fac-simile delle famigerate prove Invalsi: i questionari sottoposti dal ministero agli alunni della scuola media durante gli esami di Stato dell’estate scorsa. “Se le somministriamo una volta al mese, i ragazzi si abitueranno a sostenerle”, si sente ripetere nei corridoi. Peccato che quelle prove rappresentino un segno tangibile dell’imposizione del modello “Pomigliano” nella scuola pubblica! Imperativo: lavorare veloce, riflettere poco, vietato fermarsi. Proprio come nei call center e negli infiniti gironi infernali del lavoro sottopagato nell’Italia del tempo presente. In un’ora, infatti, l’allievo deve confrontarsi con una raffica di domande a risposta multipla. È una modalità di verifica che sarebbe pure giustificabile agli esami di scuola-guida: l’automobilista è chiamato ad avere riflessi pronti. Però non tutti gli studenti sono aspiranti piloti di Formula uno. Un tempo si diceva: bisogna preparare gli alunni a essere cittadini. Strana idea di cittadinanza hanno i “ bambinologi” dell’odierna scuola-azienda. Chiaro comunque il loro obiettivo: verificare che i ragazzi siano predisposti alla performance, cioè pronti a essere calati su una delle linee produttive della fabbrica dislocata che sforna beni e servizi imponendo tempi disumani, assenza di diritti e un bassissimo costo del lavoro.
Poco importa che l’ansia da prestazione possa compromettere le capacità cognitive di qualsiasi essere umano. La mattina degli esami ti senti teso? Hai mal di testa? Ti freghi! Nonostante tu abbia ottenuto ottimi voti al termine del triennio, vedrai la tua media aritmetica menomata dallo spietato voto delle prove Invalsi. Se sei fortunato come nel gratta & vinci, ti basterà indovinare le risposte giuste e vedrai lievitare la tua pagella. Tutto ciò sancisce l’addio al metodo della valutazione funzionale, basata sulla saggia convinzione che qualsiasi strumento di verifica degli apprendimenti, prima di puntare a misurare i livelli di conoscenza raggiunti, deve avere finalità formativa. Si conferma dunque la tendenza alla generale svalutazione della scuola pubblica, proprio mentre un’altra campanella d’allarme suona con insistenza in queste giornate d’apertura del nuovo anno scolastico. È l’annuncio della fine delle 18 ore settimanali d’insegnamento. Durante i collegi dei docenti, tantissimi dirigenti che a loro volta subiscono forti pressioni dall’alto, provano con insistenza sempre maggiore a convincere gli insegnanti che aumentare il monte ore si può, anzi si deve. E propongono di salire a 20 o addirittura a 24 ore, in cambio di compensi irrisori. È solo l’antipasto dell’ultima cena preparata da Valentina Aprea, presidente della VII Commissione della Camera [ Cultura, Scienza e Istruzione]. Ritorna alla ribalta il suo meschino disegno di legge che consacra definitivamente la scuola pubblica al credo neoliberista, introducendo gerarchie tra i docenti; abbattendo i residui spazi di democrazia, aprendo agli investimenti privati. Per fortuna nel corso delle assemblee collegiali c’è ancora chi ricorda ad alta voce che una didattica di qualità richiederebbe tempi umani, e che le ore di insegnamento svendute al Ministero sono sangue sottratto a tanti precari espulsi dal sistema scolastico. Ma c’è pure chi, per  necessità, accetta. Lavorare di più, insegnare meno!
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale, n° 30  settembre 2010

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