L’insostenibile pesantezza della precarietà

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La Calabria è più povera della Grecia, però qui nessuno insorge. Chissà perché. Osserviamo il risultato delle recenti elezioni regionali. Quasi tutti i consiglieri neoeletti vantano una proficua carriera politica pregressa. A parte un paio di eccezioni, non ci sono facce nuove. Per indifferenza, disgusto o esodo, più della metà dei Calabresi non è andata a votare. Tra la minoranza recatasi alle urne, invece, in centinaia di migliaia hanno scelto i cognomi di sempre. È evidente che i politici sono come i parroci. La gente li considera eterni punti di riferimento. E corre a piangere sulla loro spalla in momenti di difficoltà… non solo spirituale.
In provincia di Cosenza è commovente l’attaccamento reciproco che lega alcuni anziani leader di partito ai rispettivi elettori. Sarà una questione di cabala o di coincidenze, ma ci sono politici che nel corso del tempo hanno riscosso più o meno sempre lo stesso numero di consensi nelle varie tornate elettorali. Sorge un dubbio: forse a votarli sono sempre le medesime persone, imperturbabili dinanzi al momento di compiere il proprio dovere, come i miliziani dell’ISIS. Nelle recenti elezioni regionali, tanto per fare un paio di esempi, Pino Gentile ha ottenuto 10859 preferenze. Nelle regionali del 2010 furono 14676. Un calo c’è stato, ma è fisiologico. Lo zoccolo duro dei suoi votanti è rimasto lì, fedelissimo. Nel 2010 Ennio Morrone raccolse 6838 schede, suppergiù l’identico risultato di quest’anno: 7211.
Una cosa è certa: così non cambieranno mai le figurine nell’album della politica locale. Tra le possibili cause di questa immanenza, una può essere ricercata nella insostenibile pesantezza della precarietà lavorativa, che è ormai condizione diffusa. Nessuno infatti può sentirsi libero di scegliere il proprio rappresentante nelle istituzioni, se pur di sfamare una famiglia e pagare un mutuo, ogni tre o quattro mesi si è costretti a fare anticamera davanti all’ufficio del datore di lavoro per elemosinare il pagamento di stipendi che arrivano puntualmente in ritardo. Spesso quel datore di lavoro è anche direttamente o indirettamente “impegnato in politica”. Ed è un bell’impegno! Il dramma diventa più amaro quando bisogna addirittura implorare di essere piazzati da un’altra parte perché il contratto di lavoro è scaduto, l’azienda chiude o ha deciso di tagliare. Nel vocabolario italiano la parola “mobilità” significa possibilità di essere mosso. Nella realtà dei fatti, vuol dire l’esatto contrario. In “sindacalese” questo termina identifica la condizione del lavoratore cui viene conferito un sussidio in attesa di attribuirgli (o che trovi) una nuova occupazione. Ma dal momento in cui va in mobilità, di fatto il lavoratore è civilmente morto. Deve solo pregare che gli arrivi l’assegno. Se ciò non accade, ha davanti a sé tre possibilità: emigrare, gettarsi nella criminalità o miagolare sotto le finestre di un politico, implorarlo affinché lo sistemi alla meno peggio da qualche parte. C’è una quarta strada: assediare la sede dell’INPS, bloccare l’autostrada in segno di protesta, andare in pellegrinaggio alla Regione Calabria improvvisando appassionati valzer concertativi col prefetto e la digos che (non si capisce con chi) hanno il compito di mediare. A volte si riesce pure a spuntarla. Da Catanzaro e da Roma piove qualche assegnuccio. Ma trascorse poche settimane, ricomincia la questua.
Ci sono sindacalisti buoni solo a timbrare il cartellino in ufficio. Ma c’è pure qualche sindacalista vecchia maniera, che studia, rompe le scatole, condivide drammi umani e lotte sociali. Delio Di Blasi, dell’opposizione interna alla CGIL, fornisce dati interessanti: solo in provincia di Cosenza vegetano tra 3500 e 4mila docenti precari e 1300 sono gli Ata. Sui 2800 collaboratori “a progetto” presenti in tutta la Calabria, circa 2mila lavorano a Cosenza. Oltre 500 dipendenti fluttuanti annaspano nella sanità, senza tenere conto dei servizi esternalizzati, gestiti spesso da cooperative legate alla politica. Ben 2315 sono Lsu e Lpu, ai quali devono aggiungersi diverse centinaia di fruitori di ammortizzatori sociali in deroga utilizzati quasi gratuitamente dalla pubblica amministrazione. Sono gli addetti all’umana logistica, garantiscono ai cittadini servizi essenziali come il trasporto degli alunni, l’assistenza agli anziani e ai disabili, la cura degli spazi pubblici. Ed a proposito di “nuove figure” schiavizzate, quasi 4mila sono infilati nei call center. I dati contenuti nel documento della Direzione Territoriale del Lavoro, delineano un quadro occupazionale peggiore di quello della Grecia: degli oltre 39mila rapporti lavorativi attivati in provincia di Cosenza fra il 1 luglio e il 30 settembre 2014, l’87% sono precari. I contratti a tempo determinato superano il 73% del totale di quelli stipulati. La terra e i palazzi tremerebbero, se tutti questi precari si mettessero insieme, soprattutto se la loro potenza rivendicativa non fosse attutita e disgregata dai rispettivi feudatari politici di riferimento. E magari si otterrebbero soluzioni generalizzate al dramma della precarietà. Persino l’unico settore che negli ultimi anni ha fatto registrare una crescita significativa, quello agricolo, rischia di implodere. Emanuele Guarascio, responsabile amministrativo di Confagricoltura, fa notare che in provincia di Cosenza, ogni anno, dall’Europa piovono 70 milioni di euro che sono effettivamente spesi per potenziare il comparto. Basterebbe impiantare la cultura della cooperazione tra le tante piccole imprese sorte negli ultimi anni, per raggiungere gli standard delle migliori aree produttive del continente. Nell’ultimo bollettino di Confagricoltura Cosenza, la presidente Fulvia Caligiuri evidenzia l’estrema “precarietà che attanaglia il settore” e denuncia “la mancanza di accesso al credito”. Altrove le Regioni si sono organizzate istituendo fondi di garanzia per gli imprenditori agricoli. Qui invece siamo fermi a Fincalabria ed alle sue travagliate vicende.
Il precariato è la linfa vitale dell’attuale classe politica parassitaria nazionale, non solo di quella calabrese. Ma è chiaro che né al governo locale né a quello centrale interessa la dignità di chi vive in questa condizione. Nel suo Jobs Act, Matteo Renzi si è guardato bene dall’introdurre misure “europee” in tema di welfare e ammortizzatori sociali. La corte di giustizia dell’UE ha ben poco da strepitare per costringerlo ad assumere i 250mila docenti precari che in Italia, in virtù della loro stessa condizione volatile, tengono in vita gli apparati burocratici dei provveditorati e l’intera scuola nel suo insieme. Renzi farnetica di Aspi, mini Aspi (indennità di disoccupazione), nuova Naspi, di un sussidio universale che dovrebbe comprendere anche i precari. Comunque andrà, sarà un’elemosina temporanea. Il governo sfodererà la solita scusa della mancanza di una copertura finanziaria. Dirà che un vero sistema di tutele per i senza-lavoro costerebbe troppo, e che sarebbero misure “assistenzialistiche”. Come se non fosse già abbastanza assistenzialistico il fatto stesso che a 40 o 50 anni bisogna umiliarsi aggrappandosi al lembo della giacca dei tanti suini umani catapultati nelle stanze di consigli comunali, provinciali e regionali. Soluzioni dignitose non arriveranno mai da questa classe politica. Anzitutto perché fallirebbero le banche e i sindacati. Malavita e malgoverno andrebbero in crisi. Se ad inoccupati e disoccupati fosse garantito un reddito sganciato dal lavoro, moltissimi dei “nostri” politici sarebbero costretti a terminare i propri giorni sulla panchina di qualche parco pubblico. Andrebbero a godersi un nipotino o magari finirebbero per coltivare un orticello, ammesso che siano in grado di zappare. Perché in assenza di precarietà e disoccupazione, quanti tra quelli che oggi sono costretti a votarli, continuerebbero a farlo?
Claudio Dionesalvi
la Provincia di Cosenza (editoriale), 12 dicembre 2014

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