L’identità locale che rende la città provincia a modo suo

Migliaia di persone in fila per ore alla presentazione del fumetto Dylan Dog ambientato a Cosenza. Altrettante assistono alle performance in vernacolo di artisti come Canaletta e Nunzio Scalercio. Quindicimila spettatori sono accorsi allo stadio per il centenario del Cosenza Calcio. Gli antropologi hanno già una spiegazione. Secondo loro, il ritorno di massa alla cosentinità sarebbe conseguenza dei giorni difficili che stiamo vivendo. La gente quindi avrebbe nostalgia del “buon tempo antico”, vorrebbe sentirsi partecipe di un mondo che sta scomparendo, in tempo di crisi preferirebbe aggrapparsi all’identità locale.
Al di là delle motivazioni profonde, rimane un dato di fatto: da un po’ di tempo a questa parte, gli abitanti della valle del Crati e zone limitrofe amano tutto ciò che parli in modo creativo, simbolico e critico della loro terra. È naturale allora porsi il problema se esista la possibilità che questo sentimento possa trasformarsi in qualcosa di costruttivo; una volta si sarebbe detto: qualcosa di “politico”.
“’A Calabria è morta”, è il titolo di un eloquente monologo dell’attore calabrese Ernesto Orrico. Verrebbe da domandarsi, con lui, se una Calabria sia mai nata, se sia esistita. La Calabria forse no, ma i Calabresi esistono, eccome! Ad oltre 40 anni dalla sua istituzione come ente, quest’aggregazione amministrativa coatta chiamata “regione” gestisce le risorse destinate a popolazioni che non possiedono un comune passato remoto, eppure da qualche decennio condividono infinite disgrazie e tante vane speranze. Questo semplice fatto dovrebbe bastare a renderci uniti. Ma in tanti concorderanno: se vista dall’alto la regione ci può pure stare, dal basso è una semplice “espressione geografica”. Non sono solo i campanilismi a dividere. Il dramma è la classe politica che esprimiamo. Quando non è latitante nella gestione dell’interesse pubblico, ha un impatto disgregante, centrifugo, devastante, sui territori e su chi li abita. Logico chiedersi se un maggior grado di autonomia politica e amministrativa potrebbe consentirci di vivere meglio.
Rifiuti, viabilità, salute, istruzione, accesso ai fondi UE: se non dipendessimo da Reggio e Catanzaro, forse riusciremmo ad affrontare i problemi legati a questi settori della vita civile. Le nostre strade sono invase dai rifiuti, montagne e corsi d’acqua contaminati dall’immondizia. Dopo la Sicilia, siamo i peggiori nella graduatoria italiana della raccolta differenziata. Ogni anno franano chilometri di strade che non vengono poi ricostruite. Interi paesi restano isolati dal resto del mondo. Gli ospedali periferici sono stati chiusi, e quello di Cosenza è al collasso. Nelle scuole mancano insegnanti e collaboratori. I presidi si sentono abbandonati dall’Ufficio scolastico regionale. I fondi Ue sono spesi poco e male, finiscono quasi sempre nelle tasche dei soliti noti. Gli ammortizzatori sociali vengono elargiti sotto forma di elemosina, con ritardi spaventosi nell’erogazione del famigerato assegno di mobilità.
Di fronte a siffatta tragedia, una considerazione nasce spontanea: il potere è una questione di uomini, ma soprattutto di luoghi. Magari se i luoghi decisionali fossero meno centralizzati e più vicini a noi, forse potremmo provare a risolvere questi problemi, almeno in parte. Forse. Perché è chiaro che prima ci vorrebbe una rivolta. Non necessariamente un bagno di sangue, che servirebbe solo a consolidare i poteri più o meno visibili. Ma una qualche forma di rottura è chiaro che ci vorrebbe. Di certo, se un giorno scoppierà un’insurrezione nel Cosentino, culturale o violenta che sia, sarebbe la sommossa di una minoranza. La maggioranza è legata a famiglie politiche locali, tardofeudali; le sostiene per ragioni di sopravvivenza. E insieme a loro è responsabile dello sfacelo nella sanità e nell’ambiente, è complice dell’emorragia di risorse pubbliche e del mancato decollo di settori come l’informatica e il turismo. Le stesse famiglie gestiscono questi settori da sempre. Di chi sono, se non loro, le responsabilità del calabro sfacelo? Ecco perché il primo obiettivo dovrebbe essere proprio l’eliminazione di queste famiglie dalla vita pubblica. Per carità, non sarebbe indispensabile la ghigliottina che nella storia non ha mai portato fortuna a chi la praticava, ma quantomeno vederle sparire dalla scena politica, queste famiglie e i loro rampolli! Invece sono là, imperterrite, riverite e servite. E anche grazie all’ente regione Calabria mangiano come lontre.
In tutta Europa fioriscono movimenti che lottano per la secessione, spesso si limitano ad esaltare le virtù del federalismo. A volte fanno chiara apologia del provincialismo. Vivere in provincia significa sempre essere provinciale? Si può abitare a New York consumando i propri giorni in un vicoletto cieco di un quartiere di periferia, al chiuso di rapporti umani asfittici, interni al proprio nucleo etnico d’appartenenza . E si può vivere nella piana di Sibari, nella periferia meridionale europea, percorrerla ogni giorno su e giù per motivi di lavoro, incontrarvi persone provenienti dai quattro angoli del pianeta, stringere con loro proficue relazioni sociali. In realtà, in provincia di Cosenza di province ce ne sarebbe tante: Pollino, Sila e presila, Savuto, Sibaritide, Tirreno, sono territori che potrebbero legittimamente autogovernarsi.
C’è però un limite fa rispettare. Portando all’esasperazione questo ragionamento, rimane il rischio che si sconfini nell’esaltazione del mito delle patrie locali e che la cura dell’identità finisca per alimentare nuove barriere invisibili, vecchie e nuove xenofobie di cui francamente non si avverte il bisogno. Ce ne sono già troppe in giro. Pochi mesi fa, in un suo interessante libro, lo studioso Giovanni Sole ha evidenziato le enormi responsabilità del mondo accademico nella costruzione a tavolino di una mitologia locale triste ed improbabile. L’edificazione artificiosa dei miti, mediante la riscrittura della storia, è un fondamento dei micro-nazionalismi. Allora come uscire dalla trappola? Ancora una volta la risposta può arrivarci dalla fantasia, quella disinteressata. Numerose sono le esperienze creative che in anni recenti hanno sia raccontato al mondo la nostra terra, sia raccontato il mondo attraverso la nostra terra, inserendola quindi in una dimensione globale, ponendo in luce le confluenze e gli intrecci, piuttosto che le differenze.  Gli spettacoli di Max Mazzotta o di Giovanni Turco, il Beckett di Krypton, le foto di Ivana Russo, le canzoni di Peppe Voltarelli o Brunori SAS, le poesie di Daniel Cundari, le geniali intuizioni dei già menzionati Canaletta, Scalercio ed Orrico, sono soltanto alcune delle dimostrazioni artistiche di come la cosentinità può, a pieno titolo, conquistarsi un posto nel mondo, senza però separarci da esso. In sintesi, ci sono infiniti motivi per essere orgogliosi delle proprie origini, ma la migliore cosentinità è quella che non esiste, quella che prende vita per fondersi col resto del pianeta. Qualsiasi uso strumentale della cultura, rappresenta una pratica nefasta. Tanto per fare un esempio, al giorno d’oggi troppi acchiappafantasmi vanno alla ricerca del presunto vero dialetto, quello originario. Ma lo hanno spiegato anche i linguisti John Trumper e Marta Maddalon in un recente seminario tenutosi nel rione Spirito Santo: la condizione naturale di una lingua, è il cocktail. La lingua è fluidità e variazione. Inseguire un dialetto ideale, è come andare alla ricerca dell’Araba fenice. “Il dialetto non è uno zombie da custodire in salotto”.
Dunque, come accade per gli elementi culturali che concorrono alla sua formazione, se commettessimo l’errore di attribuire alla cosentinità una sostanza politica e un valore totalizzante, saremmo davvero imperdonabili. Altra questione invece è il nostro rapporto con l’autogoverno del territorio, che è l’unica reale via d’uscita dal pantano nauseabondo in cui ci troviamo. Per rimediare alle nostre vergogne e per costruire il presente, dovremmo cominciare ad interrogarci: anzitutto, a che serve la Regione Calabria? Forse è arrivato il momento di cominciare a chiedercelo in tanti.
Claudio Dionesalvi
La Provincia di Cosenza, 11 novembre 2014

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