La digos, Fiordalisi e il coreano

Il processo No Global di Cosenza: qualcuno se lo ricorda? Si direbbe proprio di no, almeno a giudicare dalla solitudine del “Coreano”, l’unico attivista rimasto a sventolare l’enorme bandiera rossa davanti il tribunale di Cosenza in occasione di tutte le udienze.
In verità, le cose stanno diversamente. Questa storia è entrata talmente nella memoria collettiva, che spesso i linguaggi comuni ne sono influenzati. Donne ed uomini, ragazzini, artisti e attivisti, la ricordano bene, eccome. Capita spesso, in città, d’essere fermati per strada da amici, conoscenti e sconosciuti: “Ancora vi tormentano? Ma ‘sti giudici non si vergognano?! Hanno fatto ridere e preoccupare l’Italia intera. Da allora, non parlo più tranquillamente dei fatti miei al telefono”.
Però, effettivamente, in tempi recenti, sul piano dello Spettacolo, l’inchiesta “No Global” è stata sorpassata da vicende parimenti epocali; tutte, in qualche modo, legate ai conflitti sociali avvenuti sul crinale del decennio. Tengono banco il processo per devastazione a Genova e l’udienza preliminare per i poliziotti che massacrarono i manifestanti nella “Diaz”.
Per imputati e difensori del pasticciaccio cosentino, tutto sommato, che le luci della ribalta si siano offuscate, è anche meglio. Riescono ad elaborare più serenamente la trafila che li attende: udienze, sacrifici, firme obbligatorie in caserma, perdite di tempo e, sotto sotto, il verminoso sospetto che in fondo a tutta la trafila, fatti i dovuti scongiuri, nei palazzi di giustizia, un esagitato disposto a prendere sul serio le elucubrazioni del pubblico ministero Fiordalisi, potrebbe sempre esserci.
E allora sì che sarebbero guai, per quei 13 e per l’intero movimento. Condanne per i primi, ma un monito severo per milioni di altre persone.
Grandi riflettori spenti, dunque. Eppure oggi, lunedì 28 giugno, si è svolta una tappa dell’udienza preliminare che dovrebbe concludersi il prossimo 5 luglio con un ineluttabile rinvio a giudizio.
Imputati sostanzialmente, e deliberatamente, assenti. Inquirenti e difensori si sono ritrovati in una stanza calda e stretta, dove nessuno potrebbe contestare la prossemica troppo amichevole del pm Fiordalisi e del gup Ferrucci, come invece accadde alcune settimane fa, quando entrambi furono “sorpresi” a confabulare con delle carte in mano, poco prima dell’udienza d’esordio tenutasi in una spaziosa aula del tribunale.
Per forza stretti bisogna stare, invece, nella stanzina scelta dai vertici del palazzo.
Fa un caldo appiccicoso. Aleggia un terrificante tanfo di sudore. Fuori, oltre al coreano, c’è la digos. Gli uscieri non vedono l’ora di andare in ferie. Gli unici spifferi di freschezza sboccano dalle arringhe degli avvocati Carlo Petitto e Giuseppe Mazzotta.
Carlo ha studiato l’inchiesta millimetro dopo millimetro. Ne conosce i più intimi risvolti. Parla per quasi tre ore. Smonta pezzo per pezzo le marinettiane “parole in libertà” dell’inchiesta. Si è portato dietro una valigia contenente la parte più significativa delle 30mila pagine scritte da digos e ros. Carlo ha un grande vantaggio sul pm, pur essendo molto più giovane di lui: ha studiato, e quindi conosce, la storia dell’Italia repubblicana. Riesce così a dimostrare l’infondatezza delle accuse, il loro carattere antistorico. Dichiara illegittime molte delle presunte prove raccolte, dimostrando come in taluni casi, queste siano state montate ad arte dalla digos di Cosenza. Fa i nomi ed i cognomi dei poliziotti che avrebbero lavorato in malafede.
Peppino Mazzotta auspica, come il giovane collega, che in un giorno non lontano, una risata seppellisca tutto, ad eccezione di coloro i quali, firmando le carte che portarono all’arresto dei noglobal, ne hanno tratto pubblicità e profitto. Sarebbe troppo facile. L’avvocato dimostra, articolo 111 in mano, come né alla difesa né al giudice sia stata offerta la possibilità di lavorare in tempi che avrebbero consentito di studiare approfonditamente l’incredibile, quanto inutile, mole di carte prodotte dalla procura.
Ecco perché il processo si deve fare. Ed ecco perché nel corso dell’arringa, Mazzotta difende indistintamente, come Petitto, tutti gli imputati, ma al termine chiede espressamente il rinvio a giudizio per i propri assistiti: Claudio Dionesalvi e Michele Santagata.
Mazzotta ricorda che il reato di cospirazione deve considerarsi “norma abrogata per desuetudine” e chiede provocatoriamente al pm di spiegare quale sia “il bene giuridico dello Stato”, che la procura avrebbe tutelato nell’operazione scattata nel novembre 2002. Il bene minacciato e violato dai “noglobal” non può essere la democrazia, perché con le loro manifestazioni di dissenso essi stessi sono democrazia.
Forse, allora, quel “bene” non è neanche il governo, bensì l’immagine del suo presidente. In questo caso, il problema diventa politico, non giuridico. Peccato che negli uffici del ros e della digos non abbiano compreso una cosa importante: “La democrazia non è Berlusconi, ma chi sta contro di lui”. Nel ribadire la propria identità comunista, Mazzotta ammette la sorpresa iniziale: non avrebbe mai creduto possibile che a distanza di settanta anni da quando furono promulgate le leggi speciali, sarebbe stato chiamato a difendere i propri compagni da norme liberticide, ideate per distruggere l’antifascismo.
L’udienza si chiude alle 14. Il pm Fiordalisi sgattaiola via. Sotto il braccio, reca la sua ultima “memoria”. A pagina 15, riporta le tesi del giurista Pietro Nuvolone, autore de “Il diritto penale degli anni settanta”. Testualmente: “La rivoluzione non è un diritto, ma un fatto. Non esiste un diritto alla rivoluzione”. Sì sì, c’è scritto proprio così.
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale, n° 27 luglio 2004

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