Come curare gli insegnanti violenti

Il video sui pestaggi nella scuola di Pistoia, non l’ho voluto neanche vedere. La violenza esercitata sui bambini, mi fa vomitare. Se poi è un insegnante a commetterla, provo un senso di profonda vergogna, perché svolgo questo lavoro da dieci anni e m’imbarazza sapere che in certe scuole c’è gente capace di picchiare creature inermi.
Odio il carcere. Non lo auguro a nessuno. Soltanto a chi fa del male alle donne, ai malati, agli anziani indifesi ed ai più piccoli. Eppure, per una volta nella mia vita, adesso vorrei essere in cella con queste colleghe maestre. Mi piacerebbe far loro delle domande, chiedere come si possa arrivare ad un tale livello di cattiveria. Ed è naturale, irresistibilmente istintivo, avere sete di vendetta, allevare il desiderio di far vivere a queste persone le stesse sensazioni che hanno fatto provare a quei bambini.
Il mondo dei pedagogisti si divide da decenni su grandi categorie teoriche. La differenza di fondo è tra quelli che attribuiscono ai ragazzi degli schemi mentali innati con cui interagire, e coloro i quali invece ritengono che la testa del soggetto in crescita sia una tabula rasa da riempire. Al di là dell’approccio, il problema di fondo rimane sempre la qualità dei rapporti umani. Mio padre faceva il preside. Raccomandava sempre ai suoi insegnanti di non trattare “gli alunni come numeri da inserire in un registro”. Se avesse visto le scene dei pestaggi di Pistoia, non avrebbe esitato a definire quegli insegnanti: “terroristi”! E si sarebbe chiesto come mai nel 2009 possa ancora accadere un simile orrore. Non era un preside morbido, essendo uscito da una lunga gavetta nelle cattedre dei quartieri periferici della città e nei luoghi più sperduti della provincia. A distanza di 23 anni dalla sua morte, mi capita spesso che a Cosenza Vecchia, a via Popilia, dovunque, qualcuno mi fermi per strada per narrarmi di una frase, una carezza, regalategli da quel preside alto di statura e nel linguaggio, ma abituato a camminare in basso nelle relazioni sociali. S’arrabbiava molto, già negli anni settanta, quando gli raccontavo che a scuola le nostre maestre ci picchiavano. All’epoca le botte erano paternaliste, diffuse, pane quotidiano per tutti, con rarissime eccezioni. Però facevano male lo stesso. Era la cultura delle “mazze e panelle”: bacchettate, schiaffoni e tirate di capelli. Non facevi i compiti? Venti rigate! Mormoravi qualcosa al compagno di banco durante la lezione? Cinque staffilate! E così studiavi solo dietro minaccia, in un clima di paura costante. Ne scaturiva una specie di riflesso condizionato. Nel luogo che prefigurava la tua attività futura, gli interessi, il lavoro e le responsabilità, in assenza di botte, non combinavi nulla di buono. Per capire quanti disastri abbia prodotto questo “modello” pedagogico, è sufficiente entrare in un ufficio pubblico, un ospedale, un qualsiasi posto in cui si dovrebbero erogare servizi, soprattutto nel nostro sud. Ci lavora la generazione che negli anni settanta frequentava la scuola delle bacchettate. Senza controlli, carabinieri, minacce di denuncia e raccomandazioni, è difficile trovare un medico o un impiegato che onorino il proprio contratto con un minimo senso di responsabilità. Abituati da bambini a procedere a suon di botte, adesso che sono cresciuti, in assenza di metodi coercitivi, si imboscano, sonnecchiano, sfuggono ai propri doveri. Oggi, la città in cui viviamo, è il riflesso ed è la conseguenza di quell’approccio ”didattico”. Ogni volta che un medico o un impiegato vi maltrattano, chiedetegli il numero di telefono della sua insegnante, chiamatela e mandatela a fanc…
Le violenze delle maestre di Pistoia sono un’altra storia. È vero, rappresentano dei casi isolati, ma non bisogna sottovalutarli. Il sistema scolastico italiano, negli ultimi dieci anni, è stato riorganizzato sulla base di una cultura aziendale ed efficientista. Il culto delle regole per le regole, la catena di montaggio umana, la misurazione del sapere, la cultura maniacale del fare, regnano sovrane nella testa di migliaia di presidi e docenti di ogni ordine e grado. Gli ostacoli alla programmazione, un bambino che si rifiuta di mangiare, un alunno incompatibile con i metodi prestabiliti, rischiano così di diventare intoppi, storture da eliminare. Sì, il caso di Pistoia è isolato, è una degenerazione. Ma è anche il riflesso di un sentimento dilagante, come le pratiche dei naziskin lo sono per una certa destra diffusa: picchiano migranti e gay, perché respirano odio razziale dovunque, a casa, nelle strade, sui mass media.
Per i neonazisti, come per gli insegnanti violenti, c’è una cura infallibile: un bel calcio nel sedere.
Claudio Dionesalvi
Appunti di Sopravvivenza, 7 dicembre 2009
Radio Ciroma 105,700
www.ciroma.org

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