intervista a Claudio Dionesalvi

Durante la sua adolescenza, lei ha preso delle decisioni riguardanti la sua carriera scolastica. Che percorso didattico ha seguito e in quali località ha frequentato i vari livelli d’istruzione?
Ho frequentato la scuola elementare a Cosenza, a cinquanta metri da casa; la scuola media a settanta e poi, contro la mia volontà, mi sono iscritto al Liceo scientifico di Via Popilia. Dopo il Liceo, decisi di scappare dal “nido”. Mi sono laureato all’università di Firenze, facoltà di Lettere e Filosofia, dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo. Successivamente, ho richiesto ed ottenuto il tesserino di giornalista pubblicista in Toscana. In Calabria, se non eri simpatico al presidente dell’Ordine, non ti poteva neanche avvicinare…
Cosa l’ha spinta a frequentare una facoltà differente dalla specializzazione da lei conseguita, quando esiste un corso di studi interamente dedicato al giornalismo?
Le facoltà di giornalismo, le accademie, non servono a niente. Non esiste il giornalista che va in un’università e impara a fare giornalismo; è un “mestiere” che si apprende per strada, conoscendo il mondo, imparando così ad essere umili. È difficile che si possa diventare giornalisti senza aver mai fatto un’ora di volontariato sociale o viaggiato facendo l’autostop. Tuttavia, questo non significa che non possano riuscirci anche gli eremiti o le suore di clausura…
Cosa unisce il giornalismo con i suoi studi?
Poco e niente, dato che io ho frequentato una facoltà dove si studiano tutte le materie.
Cos’è per lei il giornalismo?
È una possessione anti-mistica: o ci si crede o meglio lasciarsi stare subito. Per me è un modo come un altro per fare arrabbiare i potenti, ma soprattutto per dar voce a chi non ne ha. È  proprio questo il compito del giornalista vero. Tutti gli altri rischiano quotidianamente di sconfinare nei ruoli di leccapiedi e portaborse.
Quando e perché ha deciso che “da grande” avrebbe intrapreso la carriera giornalistica?
Quando ho capito che in questa società, di fronte a certi problemi, non si può far finta di niente. Ci sono cose che vanno raccontate, perché c’è sempre qualcuno che aspetta che ci sia un “matto” disposto a farlo. Ah, dimenticavo: io non ho mai voluto “fare carriera”, nonostante me l’abbiano proposto ottimi direttori e capiservizio. Altrimenti non sarei qui a fare l’insegnante… meglio così.
In precedenza abbiamo accennato alla sua adolescenza; chi l’ha appoggiata nella realizzazione del suo progetto?
Sicuramente il mio appoggio morale, la mia guida, il punto di riferimento, è stato mio fratello Franco, che mi ha fatto in qualche modo da “padre”, insieme a mia madre, visto che papà è morto quando ancora ero ragazzino. È stato proprio lui a darmi forza. E c’è riuscito, proprio perché non si è mai presentato con i panni del padre.
Ha avuto, nell’ambito scolastico, appoggi morali e progettuali per la sua “futura” carriera giornalistica?
Intanto vorrei ribadire che io non voglio fare carriera da giornalista. Mi basta avere la possibilità di scrivere quando e per chi voglio io. E posso assicurarti che le cose scritte da libero pubblicista mi hanno dato maggiori soddisfazioni di quelle realizzate quando vivevo schiavo in una redazione. Per me, come diceva Marx, la prima libertà del giornalista è il non essere mestiere. Comunque, non ho avuto appoggi didattici, tranne i miei professori di italiano, che insistevano molto affinché io continuassi a scrivere.
Parlava dei suoi progetti con amici e compagni? L’assecondavano?
Sì, io ho sempre parlato delle mie aspirazioni per il futuro con i compagni e loro mi hanno sempre detto di andare avanti. Non ho mai incontrato particolari ostacoli. A scuola ho sempre avuto la fortuna di incontrare prevalentemente amici veri.
Da piccolo, ha avuto un modello giornalistico a cui ispirarsi?
Da piccolo non avevo dei modelli, ma a diciannove anni, essendo suo allievo universitario, ho conosciuto Pio Baldelli, teorico italiano della controinformazione. È stato lui il mio modello giornalistico.
Oggi, quale giornalista ammira e stima di più?
Sicuramente Giuseppe d’Avanzo, Enrico Lucci e Francesco Merlo. Descrivono la realtà “tagliandola” come se avessero un taglierino al posto della penna o del microfono.
Definirebbe “un’industria” il mondo della comunicazione?
La comunicazione è un’industria; per questo io credo di essere un modesto operaio della comunicazione. Ma la “comunicazione è anche una banca…e il mio dovere è rapinarla”.
Si occupa di giornalismo scritto? Cosa si sente di dire a riguardo?
Sì, me ne occupo e sono convinto che funzioni più del giornalismo televisivo, perché scrivere una cosa significa immortalarla; affidarla all’immagine vuol dire spettacolarizzarla.
Si occupa di giornalismo televisivo? Cosa si sente di dire a riguardo?
…che in Calabria non esiste!!! Al contrario, ci sono giornalisti veri, ma poco conosciuti, che lavorano sul monitor. Prendi, ad esempio, il professore Gaetano Zaccato. Secondo te, lui non è un giornalista?
Nel mondo del giornalismo vi sono diverse sezioni (gossip, cronaca, politica, sport…). Lei quale “racconta”?
Mi sono prevalentemente occupato di società, costume, cultura. Sport sì, ma solo nei suoi risvolti sociali. Raramente la cronaca.
Identificherebbe lei e i suoi colleghi giornalisti come “critici sociali”? Perché?
Preferisco il sottotitolo di “mediattivista”. Non può esserci informazione, senza un risvolto politico. Ovviamente, ti prego di non fraintendermi. Quando uso il termine “politico”, mi riferisco all’origine greca della parola stessa. Che non vuol dire “partitica”. I partiti sono l’esatta negazione della politica. Che, al contrario, è la costruzione partecipativa e sociale della città.
Per lei, i giornalisti che scoprono situazioni di disagio sociale, talora legato ad organizzazioni di tipo mafioso, dovrebbero denunciare ciò, o dovrebbero “vivere” nell’omertà? Lei come si comporterebbe?
È il minimo, se si pensa all’ampia casistica di giornalisti che hanno sfidato frontalmente la mafia e si sono ritrovati poi sotto terra. La mafia, certe volte, è un nemico invisibile, difficile da definire, perché si è portati ad identificare i mafiosi solo in coloro che sparano. Non si è ancora capito, o non si è voluto capire, che i “mafiosi” godono di ampie coperture nei palazzi del potere. Questo è il grande problema: non si ha la possibilità di colpire anche giornalisticamente coloro i quali si rendono favorevoli, appoggiano e sono i promotori della mafia, perché senza gli interventi giudiziari, e in assenza di testimonianze aperte, si è passibili di querela, oltre che di altre forme di rappresaglia.
Nel campo giornalistico, lei, oggi,  si sente realizzato? Perché?
Di sicuro mi sento più realizzato quando parlo di giornalismo con i miei alunni di prima media, che quando scrivo articoli; anche perché, poi, l’opinione pubblica calabrese nella maggior parte dei casi resta indifferente. Non potrò quindi sentirmi realizzato fin quando non vedrò i risultati delle cose che scrivo. E poi, per l’ennesima volta, io non ho scelto di “fare il giornalista”.
Quale potrebbe essere il complimento che maggiormente la gratificherebbe?
Scrive come se impugnasse un taglierino.
Cambierebbe qualcosa nel suo modo di esprimersi e quindi nel farsi comprendere dal pubblico?
Diciamo che sto “imparando” ad esprimermi correttamente, stando a contatto con gli alunni della scuola media che adottano un linguaggio molto semplice. Posso quindi affermare che sto “imparando” dai ragazzi a scrivere articoli per gli adulti.
Concorda con la dichiarazione del noto giornalista Franco Di Mare: “Un buon giornalista deve farsi capire con semplicità da tutti”?
Sicuramente. Un buon giornalista deve farsi capire con semplicità da tutti, ma deve anche farsi temere con semplicità da chi comanda.
Per concludere, che consiglio si sente di dare ad un adolescente che sogna di intraprendere quest’affascinante professione che è il giornalismo?
Consiglierei ai giovani di stare costruttivamente in mezzo alla strada, fare volontariato, viaggiare molto, leggere sempre, e soprattutto libero sfogo alla propria indignazione.
Ludovica Camodeo
Scuola Flash, n. 1 dicembre 2004

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