Il più globale dei pranzi per il terzo Natale collettivo

Un tempo qui era tutto uno sferragliare di treni, materiali metallici, macchine a vapore. Da stazione di passaggio, a luogo di transito sociale e interscambio culinario. Il deposito delle vecchie ferrovie si rianima per dar luogo al Natale collettivo 2004, celebrazione di un evento che prefigura e riassume una maniera sconfinata e futuribile di “essere città”.

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Pasta “china”, lasagne, polpette, kebab, cotolette, patate, torta e clementine invadono dieci o dodici tavolate di comitive formate da gente nata alternativamente quaggiù o in posti lontanissimi del globo. Una cartolina che fino ad un lustro fa non sarebbe stato possibile spedire da Cosenza.
Per il terzo anno consecutivo, cosentine e cosentini, cooperanti sociali, ultrà, migranti e vaganti si ritrovano a condividere, nella medesima porzione di spazio, una mezza giornata di gozzoviglie ed allegria. Qualcosa di più d’un semplice pranzo in beneficenza. E la differenza non è in un ipotetico afflato comunitario tra i partecipanti alla festa, che invero appaiono poco intercomunicanti. Il valore aggiunto di questo “ammazzaNatale” è la qualità umana di chi lo immagina, la possibilità di vedere anche solo per poche ore, tutte insieme, nello stesso capannone, le costellazioni umane che tanto piacevano a quella signora Pasqualina Lupia, concittadina nostra, operatrice volontaria inesauribile, scomparsa purtroppo solo pochi giorni fa.
È con il suo messaggio nella mente, che Piero, Ciccio, Maria, Catia e quanti affollano il salone multietnico si danno da fare per la riuscita dell’evento. L’organizzazione è ormai collaudata. Funziona più o meno così: all’inizio di dicembre, giovani cresciuti in curva Sud programmano un menu strepitoso, che fa il giro delle famiglie disponibili a trascorrere il pranzo di Natale fuori dal proprio recinto.

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Le mamme contribuiscono a riempire le caselle mancanti, i figli sensibilizzano le aziende locali, che a loro volta mettono a disposizione strumenti ed alimenti. Il Comune concede sala, tavoli e sedie. Ne nasce una piccola e laica mobilitazione cittadina. Al richiamo rispondono polacchi che barcollano dodici mesi all’anno negli interstizi della città, rifugiati politici curdi e nordafricani ospiti della Casa del Migrante, rumeni e slavi delle roulotte, manovalanza moldava, lavavetri di Casablanca, colf e badanti della comunità filippina, senza-volto albanesi e ovviamente le nostrane e storiche presenze dell’Oasi francescana. Non mancano alcune facce note della politica locale, che rispettosamente chiedono di non apparire sui media. Alle due estremità della sala si parla dialetto bruzio. Un po’ di imbarazzo: il vino è stato bandito. Di norma, gli uomini e le donne dell’est lo assorbono in modo poco traumatico. Ma a quanto pare si rivela letale per il sistema nervoso di noi mediterranei. Stona la coca cola a braccetto coi “turdiddri”. Per fortuna, qualcuno imbraccia chitarra e fisarmonica. Cambia la colonna sonora. Sui muri, due striscioni ricordano che l’ultrà Salvatore è stato recentemente privato della libertà.
Il pomeriggio si scioglie cantando. Poi, ognuno ritorna nella propria pelle. Tanti, tra questi giovani cosentini, hanno ormai scelto d’indossare la casacca di individui sociali a tempo pieno. Altri meditano di affacciarsi costruttivamente sui quartieri. Forse manca un pizzico di costanza ed armonia. Ma in terra bruzia da millenni si vive in tribù. Sempre meglio dei clan.
Claudio Dionesalvi
Il Quotidiano, 27 dicembre 2004

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