Loris, fratello mio

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Io non lo so ora tu che cosa sei. Se un mucchietto di cenere in un’ampolla, un corpo inanimato, un raggio di energia, un ricordo radioso ma attorcigliato e amaro.
La memoria mi dice che cos’eri. Le giornate trascorse insieme, le risate che ci facevamo.
Tu, io, Rafele e pochissimi altri scegliemmo di restare ultrà quando nessuno voleva più farlo. Dopo la metà degli anni novanta la sciarpa rossoblù non andava più di moda. I più giovani sui treni combinavano guai. Noi ci infilavamo lo stesso. Eravamo capaci di ridere una nottata intera, fino a svegliare tutto il vagone. Persino i peggiori rompipalle della curva ci imploravano di farla finita. Tu le ingiustizie non le subivi. Me lo scrivevi sempre quando ti rinchiudevano in cella: “In ginocchio mai”. Almeno un paio di volte ti sei scagliato a mani nude contro interi plotoni della celere per difendermi. Una sera ti sei incazzato come una belva quando uno degli “eroi” domenicali che ci venivano dietro, ha lanciato una bottiglia contro un capostazione. Così! Siccome voleva far divertire gli amici, se l’è presa con quel padre di famiglia in divisa da ferroviere. Per poco non lo ammazzava. Dopo però per poco non lo ammazzavi tu, quando gli hai messo le mani addosso. Il ragazzo ci aveva chiamato “rifardi”, perché noi non davamo bottigliate in testa ai ferrovieri. E tu: “Ma u sa chi significa chiru c’ha fattu e chiru c’ha dittu, oi pisciaturu e ‘nfame!?”…
Un abisso tra noi e tutto il resto. Quando tornavamo dalle trasferte, camminando alle otto del mattino in mezzo a gente che andava a lavorare, ci accorgevamo che la sciarpa ci si era cucita sul collo, sulla pelle. Pomeriggi, giornate, al Renzellino. Ubriaco, sembravi un fumetto. Barcollavi con la scritta “Hic” dietro la bocca storta. Lucido, diventavi profondo. Poche parole, consapevoli, ruvide, un velo di tristezza, l’immagine di tua figlia, la voglia repressa di riabbracciarla e la dignità che non t’abbandonava mai.
Non so come facevi ad essere umile e fiero, semplice e profondo allo stesso tempo. La punta estrema delle labbra t’arrivava alle orecchie, se sorridevi. La bocca si gettava tutta da una parte, quando t’incazzavi. Non hai mai chiesto niente in cambio di quello che davi. Solo l’amicizia t’interessava. Persino in galera riuscivi ad essere di conforto ai più inconsolabili. Ogni tua riga scritta da lì dentro respirava sentimenti, libertà, passioni.
Una volta il Cosenza giocava a “Marassi”. Siamo andati a trovare tua madre a Genova. Energica e simpatica come te. Una delle trasferte più belle che abbiamo fatto. Lasciammo la macchina in un parcheggio custodito. Poi andammo a passeggiare in città e quando tornammo, facemmo un giro nel parcheggio ma non la trovavamo più. Allora tu ovviamente stavi per perdere la pazienza. Pretendevi che il custode ci restituisse subito la macchina. Peccato che il parcheggio vero, quello in cui avevamo lasciato la macchina, fosse dalla parte opposta della città…
In fondo, tutti cerchiamo qualcosa che forse si trova da un’altra parte. Io stesso cerco te su questi fogli, sul monitor di un computer. E non trovandoti, non riesco a ritrovare me stesso. Ti auguro di incontrare il custode e il parcheggio giusti. Anzi, ne sono sicuro. Se esiste un luogo dell’universo che convoglia le nostre energie separate dai corpi, tu adesso sei lassù, oi Lò, e ogni tanto vieni in trasferta nei miei pensieri.
Claudio Dionesalvi
Tam Tam e Segnali di Fumo, maggio 2005

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